Ilaria Capua: "La pandemia è un evento a cui seguono grandi trasformazioni"
La pandemia è un evento a cui seguono grandi trasformazioni, spiega Ilaria Capua. Ora abbiamo l’occasione di relazionarci in modo diverso con il mondo, rispettandolo.
- di
- Beba Minna

Paura e incertezza da una parte, ma anche meraviglia e una certa dose di ottimismo, perché in una pandemia ci sono grandi opportunità. È questo lo spirito con cui la scienziata Ilaria Capua, direttrice del Centro di Eccellenza One Health dell’Università della Florida, ci accompagna nel suo ultimo libro La meraviglia e la trasformazione – Verso una salute circolare.
Cos’è la salute circolare e che cosa ha a che fare con la pandemia?
"Salute circolare vuol dire riconoscere la salute come valore di un intero sistema, cioè non solo dell’uomo, ma anche delle altre creature che vivono sulla terra. Il presupposto è che viviamo in un sistema chiuso, come un acquario, quindi dobbiamo rispettare la nostra salute, ma anche quella degli altri coinquilini del pianeta. La pandemia ci ha fatto capire certe cose a forza, tra cui il rapporto con il nostro sacco amniotico, il nostro ruolo come parte di una comunità e soprattutto come guardiani del sistema di cui facciamo parte. È una lezione che non può non lasciare il segno. Oggi dovremmo tutti avere la consapevolezza che stiamo sfruttando il pianeta al limite. Se non capiamo che quello che fa l’uomo ha ripercussioni incredibilmente negative sulla salute di altri componenti del sistema, continueremo a fare danni che poi presenteranno il conto. La pandemia ci ha urlato che alcune cose non possiamo più farle, perché se il pianeta soffre soffriamo anche noi".
Assodato che ciò che fa male al pianeta fa male anche a noi, che lezione arriva dalla pandemia?
"La cosa più importante che ci ha insegnato il Covid è che siamo parte di una catena di responsabilità. Nel libro uno dei temi più scottanti è quello della resistenza agli antibiotici. Stiamo selezionando batteri che diventano sempre più resistenti (i cosiddetti superbatteri), nei confronti di queste infezioni gli antibiotici non bastano più. Ognuno di noi ha una responsabilità per questo: se li usiamo male o quando non servono, gli antibiotici perdono la loro efficacia. Ricordiamoci poi che tutti i farmaci che assumiamo ritornano nell’ambiente attraverso gli scarichi fognari, andando ad alterare l’equilibrio dell’acqua e della terra".
Quindi come singoli abbiamo una responsabilità. Le nostre azioni contano nel preservare la salute?
"Assolutamente, c’è una serie di comportamenti che possono essere messi in atto dai cittadini. Abbiamo fatto l’esempio degli antibiotici, ma io credo che dopo il Covid altri comportamenti dovranno cambiare. Voglio sperare che nessuno andrà più in ufficio con l’influenza o, se si viaggia su un autobus affollato, si metta la mascherina. È importante non ammalarsi, bisogna investire in prevenzione per evitare di dover essere curati".
Servono quindi nuovi stili di vita?
"Un evento di questa gravità porta con sé anche energia generatrice. Uno dei perni della salute circolare è la responsabilità dell’individuo. È finito il tempo delle misure calate dall’alto, a meno che non vogliamo vivere in uno stato di emergenza tutta la vita. Le singole persone devono diventare responsabili, capendo che con i virus dobbiamo convivere, come con altre malattie, e mi auguro che come gruppo sociale saremo più preparati".
C’è un legame tra i nuovi virus e la febbre del pianeta?
"Si devono identificare i veri punti critici che hanno permesso alla pandemia di dilagare. La maggior parte dei virus prepandemici, quelli che stanno nel serbatoio animale senza ripercussioni, diventano pandemici grazie ad alcune loro caratteristiche intrinseche (ad esempio, quanto sono contagiosi), ma serve una tempesta perfetta perché ci sia il salto di specie dall’animale all'uomo. Molto dipende da noi. Gli incendi provocati dalle attività umane distruggono la biodiversità e costringono gli animali alla fuga dai loro habitat, alterando l’equilibrio dell’ambiente. Noi direttamente o indirettamente facciamo cose che hanno ramificazioni spaventose sull’ambiente, basti pensare alla salute precaria degli oceani, al problema delle barriere coralline, alla sovrapesca, al cambiamento climatico. Tutto il sistema sta andando in sofferenza e la pandemia è uno dei sintomi di questa febbre del pianeta".
Gli allevamenti sono finiti nel mirino per il rischio di focolai. La produzione di carne va ripensata?
"Credo di sì, da un punto di vista ambientale producono metano e aumentano i gas serra. Poi c’è un problema di spreco. Mentre noi del bovino utilizziamo il 30 per cento, altri popoli lo usano per intero e comunque non ne hanno abbastanza. Alcune cose sono già cambiate, 30 anni fa le galline in gabbia per noi europei erano accettabili, oggi non lo sono più. Bisognerà individuare un percorso strategico di riorganizzazione della produzione animale, in modo da ridurre l’impatto sull’ambiente. Ciò non significa che dobbiamo smettere di mangiare carne, ma bisogna garantirla soprattutto alle popolazioni a cui serve di più: quelle con un’alimentazione più povera".
Cosa può fare la scienza?
"La sfida che lancio nel libro è di cogliere le consapevolezze che la pandemia ci ha fornito. Abbiamo capito che se dobbiamo vaccinare tutta l’umanità non ce la facciamo in tempi ragionevoli. La refrigerazione e la logistica sono l’anello debole della catena. Ci vuole una capacità e un’infrastruttura in grado di gestire grandi volumi da stoccare al freddo. Questo taglia fuori grandi aree del mondo, dove la corrente non è presente in modo continuo. Finora abbiamo sviluppato vaccini che richiedono la catena del freddo perché queste politiche le stabilisce il Nord del mondo, dove esistono i congelatori e la rete elettrica è solida. Bisogna investire nei vaccini termostabili, che non necessitano della catena del freddo. Sarebbero un risparmio e un vantaggio per tutti. La pandemia, nel mostrarci i limiti delle nostre scelte, ci sta al contempo indicando una serie di opportunità per immaginare di trovare soluzioni che migliorino la salute delle persone, degli animali, delle piante e dell’ambiente".
Inoltre questa emergenza è stata un esempio di collaborazione planetaria tra scienziati...
"I grandi problemi non si risolvono da soli. La condivisione è essenziale per essere più rapidi ed efficaci. Nel 2006, dopo aver scoperto il codice genetico della variante africana del virus dell’aviaria, ci chiesero di metterlo in un database ad accesso limitato. Ci rifiutammo. L’aviaria era un problema di salute pubblica globale, bisognava trovare un modo per collaborare di più, non di meno. Decidemmo di mettere la sequenza del virus H5N1 in un data base aperto. Questa decisione ha cambiato l’approccio scientifico: oggi esistono banche dati con milioni di sequenze condivise. Quando è stato isolato il virus del Covid, il codice genetico è stato depositato in una banca dati aperta, seguendo l’approccio che avevamo lanciato molti anni prima. Non era scontato che i cinesi depositassero la loro sequenza del Covid. Se non fosse partito quel dibattito nel 2006, oggi non saremmo stati pronti. Almeno su questo lo eravamo".