La settimana delle obbligazioni: divergenze pre-natalizie
settimana delle obbligazioni
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Negli Stati Uniti si sta tornando lentamente alla normalità dopo lo shutdown con i dati macroeconomici, consentendo di avere un quadro sempre più chiaro. Dopo diversi mesi di aumento, le pressioni inflazionistiche hanno iniziato ad attenuarsi: a novembre l’inflazione è scesa al 2,7%, dal 3% di settembre – i dati di ottobre erano saltati a causa dello shutdown. Questo andamento rafforza la decisione della Federal Reserve, che nella riunione dello scorso 10 dicembre ha ridotto i tassi dello 0,25%. Il calo dell’inflazione ha, inoltre, smentito i timori legati all’impatto dei dazi sui prezzi al consumo. I mercati hanno accolto positivamente anche il rallentamento del mercato del lavoro, con sole 64.000 nuove buste paga create a novembre e un tasso di disoccupazione risalito al 4,6%. In questo contesto, il sostegno all’occupazione potrebbe tornare al centro delle priorità della Fed. Una conferma del raffreddamento dell’inflazione amplierebbe i margini di manovra della Banca centrale, con benefici per l’economia e per i mercati.
Di segno opposto è la situazione in Giappone, dove la Banca centrale ha adottato una decisione storica, portando il tasso allo 0,75%, un livello che non si vedeva dal 1995. La scelta, motivata da un mercato del lavoro molto teso, da pressioni salariali e da un’inflazione ancora elevata, appare rischiosa in un contesto di crescita debole, con un Pil in contrazione nel terzo trimestre. L’obiettivo di sostenere uno yen fortemente sottovalutato si accompagna a un aumento significativo dei rendimenti obbligazionari, con il decennale oltre il 2% e il trentennale al 3,4%. Ciò rende più oneroso il finanziamento di un debito pubblico pari a circa il 230% del Pil, proprio mentre il governo annuncia nuovi piani di spesa.
Nel Regno Unito, la Banca d’Inghilterra ha ridotto i tassi dello 0,25%, portandoli al 3,75%, mossa attesa dai mercati, approfittando di un rallentamento dell’inflazione. L’economia britannica resta fragile, penalizzata da scarsi investimenti, bassa produttività e finanze pubbliche deteriorate. Nonostante il calo dei tassi ufficiali, i rendimenti a lungo termine rimangono elevati, riflettendo lo scetticismo dei mercati. L’istituto centrale britannico prevede che l’inflazione si avvicini all’obiettivo del 2% entro la primavera del 2026, lasciando aperta la possibilità di ulteriori tagli, seppur con prudenza.
Infine, nella zona euro la Banca centrale europea ha mantenuto i tassi sui depositi invariati al 2%, ribadendo un approccio prudente e dipendente dai dati. Proprio rimanendo su questi ultimi, la Bce ha messo mano alle sue stime (anche questo era atteso dai mercati). Ora attende una crescita del Pil per il 2025 all’1,4% (alzata rispetto al precedente 1,2%), segnale di un’economia che sta assorbendo meglio del previsto l’impatto delle politiche restrittive passate – e anche dei dazi. Anche per il biennio 2026-2027 le prospettive restano solide, con un’espansione costante prevista tra l’1,2% e l’1,4%. Secondo la Bce, l’inflazione tornerà verso l’obiettivo del 2% annuale entro il 2028, ma bisogna monitorare quella dei servizi, che rappresenta la maggior minaccia, attualmente, per la stabilità dei prezzi.
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