L’India cresce, ma a caro prezzo

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Con un incremento demografico più elevato della Cina e promettendo una buona crescita, l'India è oggi sotto i riflettori. La Borsa indiana sta guadagnando circa il 7% dall’inizio del 2022, mettendo a segno una performance decisamente migliore rispetto alla maggior parte dei mercati azionari dei Paesi industrializzati.
In un mondo in cui i principali e tradizionali motori della crescita, Cina e Stati Uniti, stanno attraversando un periodo di crisi, la scommessa degli investitori su questo Paese in forte espansione non ci sorprende. Come accadeva prima della crisi economica e finanziaria del 2008-2009, l'India è euforica. La crescita è, del resto, una necessità in un Paese dove la popolazione continua ad aumentare: senza di essa sarà impossibile creare i circa 90 milioni di posti di lavoro di cui il Paese avrà bisogno entro il 2030.
Il debito pubblico (la somma dei deficit del passato) è esploso, passando dal 66,6% del PIL (tutta la ricchezza prodotta nel Paese) nel 2012 all'89,3% nel 2021. E se il Paese attende con impazienza i capitali stranieri, a finanziarlo è al momento la Banca centrale indiana che è dovuta intervenire per comprare il debito indiano sui mercati e sostenere la rupia.
L'India temeva di vedere il proprio mercato invaso da prodotti stranieri (soprattutto cinesi) più economici e che minano la produzione locale non abituata alla dura concorrenza dei mercati mondiali; una posizione sostenuta, in particolare, dai gruppi di interesse indiani che dominano i grandi conglomerati del Paese, e che non vogliono una presenza straniera nel loro mercato, a meno che non si tratti di loro partner.
Negli ultimi anni, con la crisi finanziaria e la pandemia, l'India ha vissuto un periodo di chiusura e di isolamento a livello di commercio mondiale, arrivando persino a rifiutare all'ultimo momento di partecipare al Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), che doveva aprirle le porte ai mercati del Pacifico asiatico.
Nuovo laboratorio del pianeta?
Con la necessità impellente di accelerare la sua crescita per creare nuovi posti di lavoro, l'India ha ora cambiato atteggiamento: il Paese sta avviando trattative per accordi di libero scambio con il Regno Unito, il Canada o l’Unione europea e ne ha già siglati altri, in particolare con gli Emirati Arabi Uniti e l’Australia. L’obiettivo è di attrarre investimenti esteri e fare dell'India l'officina del mondo, in concorrenza con la vicina Cina. Ma restano delle sfide da superare, a partire dall’assenza di accordi commerciali: dazi doganali e altre tariffe rendono il Made in India piuttosto caro, anche perché concorrenti come il Vietnam riescono a vendere a prezzi decisamente più bassi sui mercati occidentali.
Tra le insufficienze da colmare, ci sono le infrastrutture inadeguate, che rende difficile la strada per gli operatori che scelgono di produrre nel Paese. Inoltre, anche la tassazione, nonostante l'introduzione dell'IVA unica qualche anno fa, varia ancora da uno Stato all'altro; il che evidenzia le priorità spesso molto diverse tra il governo di Delhi e gli Stati che compongono il Paese. Infine, per migliorare la produttività e il suo potenziale di crescita, la prima sfida che l’India dovrà affrontare è quella di garantire l'istruzione e la salute alla sua giovane popolazione.
Tutte le disuguaglianze di tassazione si traducono in un quadro normativo complesso che, complicando anche il processo decisionale, finisce col creare notevoli ritardi e grandi difficoltà per gli investitori.
L'India deve affrontare una congiuntura poco favorevole alla delocalizzazione. Certo potrebbe trarre vantaggio dal desiderio degli industriali di diversificare la produzione, ma in questa fase la priorità degli investitori sembra piuttosto essere l'accorciamento della distanza tra il consumatore finale e le unità produttive e il rispetto dei criteri ESG.
Lontana dai mercati europei e nordamericani, l'India difficilmente soddisfa i criteri ESG, senza contare che continua a ricavare più della metà della sua energia dal carbone. Inoltre, la sua economia beneficia degli idrocarburi acquistati a prezzo stracciato dalla Russia.
Il fatto che l'India abbia una forza lavoro abbondante ma non sufficientemente qualificata, pesa infatti inevitabilmente sulla sua competitività che, sebbene sia leggermente migliorata negli ultimi anni, resta, secondo la classifica IMD World Competitiveness Yearbook, attualmente solo al 37° posto a livello mondiale (al 43° prima della pandemia), contro il 17° posto della Cina.
L’India vale un investimento?
La rupia indiana è nettamente sopravvalutata rispetto all'euro. Per quanto riguarda le azioni indiane, vengono scambiate a livelli di prezzo molto più alti rispetto alle azioni statunitensi o all'indice mondiale nel suo complesso. E secondo noi questi livelli di prezzo non sono giustificati: da una parte c’è il leader mondiale in termini di innovazione, che domina tutti i settori del futuro e che rimarrà la potenza dominante per molti anni a venire (gli Usa), dall'altra, un mercato emergente, dove molte grandi aziende devono la loro posizione dominante sul mercato indiano alla mancanza di concorrenza straniera e alle leggi che le tutelano. Inoltre, un'apertura del mercato interno – indispensabile se l'India vuole integrarsi pienamente nel commercio mondiale e realizzare il suo immenso potenziale - potrebbe danneggiare gli attori locali, poco abituati a competere sul mercato domestico. L'apertura dell'India ai mercati mondiali non ci sembra quindi scontata. Meglio starne alla larga.Attendi, stiamo caricando il contenuto