La settima delle obbligazioni: la Fed prende tempo, la Bce rallenta, le altre Banche centrali si dividono

La settimana delle obbligazioni
La settimana delle obbligazioni
Mentre non si placano le polemiche da parte di Trump per le scelte della Fed e lo stesso presidente Usa inizia a pensare al nome del sostituto di Powell per il 2026, l'attuale Governatore della Banca centrale Usa continua nello svolgimento del suo lavoro. C'era molta attesa per l'audizione al Senato e su cosa avrebbe potuto dire Powell, soprattutto per carpire indizi sulle prossime decisioni in fatto di tassi. Il Governatore non ha indicato alcuna data precisa per una possibile riduzione del costo del denaro, ribadendo che ogni decisione sarà guidata dai dati, in particolare quelli sull’inflazione. Proprio sull’inflazione, il Governatore ha riconosciuto l’impatto potenziale dell’aumento dei dazi, pur sottolineando che gli effetti potrebbero essere inferiori alle aspettative. Ha anche evitato commenti sulle politiche fiscali e migratorie, ma ha lanciato un monito importante: l’attuale traiettoria del debito pubblico americano è insostenibile. Nonostante l’assenza di indicazioni da parte di Powell, tenendo conto anche dei dati macroeconomici arrivati da Pil, prezzi e consumi (vedi a lato), per la riunione di fine luglio le attese dei mercati sono di tassi ancora fermi, mentre è diventato quasi scontato il taglio nella riunione di settembre e una seconda riduzione entro fine anno.
Se la Fed continua a riflettere su quando bisognerà tagliare i tassi di interesse, la Bce ha già tagliato in tutto ben otto volte e nella riunione di luglio dovrebbe prendersi una pausa, per poi rivalutare il da farsi da settembre. Se l’inflazione sembrerebbe, oramai, sotto controllo, il problema potrebbe essere la crescita. Il Fondo monetario ha infatti lanciato l’allarme sul rischio stagnazione, con una crescita attesa per il 2025 di appena lo 0,8%. Le cause? Investimenti insufficienti, tensioni geopolitiche e soprattutto la frammentazione del mercato unico europeo, che secondo l’FMI equivale a un ostacolo pari al 44% di dazi sui beni e addirittura al 110% sui servizi.
Nel frattempo, in un contesto economico sempre più instabile, anche a causa delle politiche commerciali imprevedibili (come quelle di Trump), molte Banche centrali stanno adottando un approccio più flessibile, ma il quadro è variegato. C’è stata, infatti, una serie di tagli ai tassi da parte delle Banche centrali di Svizzera, Svezia e Norvegia, che hanno tutte abbassato il costo del denaro dello 0,25%, ma con motivazioni diverse: in Svizzera la decisione è legata alla forza del franco e a un’inflazione contenuta; in Svezia al raffreddamento delle pressioni sui prezzi; mentre la Norvegia ha sorpreso con un taglio inatteso, giustificato da segnali di rallentamento dell’inflazione. Tuttavia, se alcune Banche si muovono in anticipo per stimolare l’economia, altre – come la Banca d’Inghilterra e la Banca del Giappone – attendono, pronte a intervenire solo quando i dati lo renderanno inevitabile. In quest’ottica rientra anche la scelta della Banca centrale di lasciare i tassi d’interesse fermi (al 46%) in attesa di ulteriori conferme sul calo dell’inflazione.
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