La Banca centrale europea, al termine della riunione di settembre, ha deciso di non modificare la propria politica monetaria. Secondo le previsioni, l’inflazione dovrebbe stabilizzarsi intorno al 2,1% nel 2025, 1,7% nel 2026 e 1,9% nel 2027, valori che si avvicinano all’obiettivo del 2%. La crescita economica della Zona euro appare leggermente più favorevole nel breve termine, con un Pil atteso all’1,2% quest’anno rispetto allo 0,9% stimato a giugno, ma resterà debole negli anni successivi: 1% nel 2026 e 1,3% nel 2027. L’istituto di Francoforte sottolinea di avere raggiunto il proprio compito principale, stabilizzare i prezzi, e rimanda ai Governi il compito di sostenere la crescita attraverso riforme e investimenti. Ciò significa che la Bce non interverrà per stimolare ulteriormente l’attività economica. L’ultima fase di allentamento monetario, che ha ridotto il tasso direttore dal 4,50% al 2,15%, sembra quindi conclusa. Rimane una porta, potremmo definirla socchiusa, per un altro taglio, ma quest’ultimo arriverà solo in caso di un inatteso calo delle prospettive inflazionistiche o di una forte contrazione economica.
Questa settimana è invece il turno della Fed. Sull’esito della riunione i mercati non hanno dubbi: taglio dello 0,25% - e poi non sarà finita. I mercati, infatti, stimano con una probabilità superiore all’80% un altro taglio, sempre dello 0,25%, a ottobre, e poi, con una probabilità che sfiora di poco l’80%, un terzo taglio a dicembre. Tutto questo, nonostante un’inflazione al 2,9% annuo ad agosto. La Federal Reserve deve, infatti, perseguire il duplice obiettivo di stabilità dei prezzi e piena occupazione e il mercato del lavoro è in difficoltà, con quasi nessuna creazione di posti da quattro mesi, mentre la debolezza della domanda interna rende urgente sostenere i consumi attraverso un credito meno oneroso.
In Cina, nonostante la guerra commerciale, le esportazioni hanno continuato a crescere (+4,4% in agosto), con un crollo verso gli Stati Uniti (-33,1%) compensato dall’aumento verso Asia emergente, Europa e Giappone. Pechino sembra in grado di mantenere una crescita del Pil intorno al 5% nel 2025, grazie alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali. Tuttavia, il modello rimane sbilanciato, con consumi interni deboli, importazioni quasi stagnanti (+1,3%) e un’inflazione negativa (-0,4%), segnale di una domanda interna depressa. Le Autorità cinesi hanno intensificato le politiche di sostegno, incoraggiando la domanda di beni durevoli e contrastando la guerra dei prezzi tra produttori locali, invitati a ridurre le capacità produttive in eccesso. Queste misure dovrebbero ridurre gradualmente le pressioni deflazionistiche. I mercati azionari cinesi, spinti dalle attese positive, hanno raggiunto livelli elevati, tanto da costringere il Governo a contenere gli investimenti speculativi per evitare bolle. Oggi la Cina non ricerca più una crescita eccessiva, ma un modello più equilibrato e stabile, capace di sostenere lo sviluppo nel lungo periodo e rafforzare l’attrattiva del Paese agli occhi degli investitori internazionali.