Criptovalute, tasse più salate (ma con qualche eccezione)
Investimenti e fisco
Investimenti e fisco
Dal 2026 cambia (in peggio) la tassazione dei proventi da criptovalute. L’imposta sostitutiva sale infatti al 33%, un’aliquota più alta rispetto a quella prevista per gli investimenti finanziari “tradizionali”, che restano tassati al 26%. Fa eccezione un caso specifico: le operazioni che coinvolgono token di moneta elettronica denominati in euro — le cosiddette stablecoin ancorate al valore dell’euro. Qui l’aliquota rimane al 26%. È stata eliminata, inoltre, la franchigia di 2.000 euro annui dei proventi da cripto.
La legge considera cripto-attività tutte le rappresentazioni digitali di valore o diritti che possono essere trasferite e archiviate elettronicamente tramite tecnologie come la blockchain o sistemi simili. Un punto importante: la permuta tra cripto-attività con uguali caratteristiche e funzioni non fa scattare alcuna tassazione.
Un affrancamento per le criptovalute
Chi deteneva cripto al 1° gennaio 2025 può scegliere di “rivalutare” il proprio portafoglio pagando un’imposta sostitutiva agevolata del 18%, da versare entro il 30 novembre 2025.
Questa operazione di affrancamento permette di aggiornare il valore fiscale delle cripto al prezzo di mercato al 1° gennaio 2025, riducendo la tassazione sulle future plusvalenze. Il pagamento può essere suddiviso fino a tre rate annuali, con un interesse del 3% annuo sulle rate successive alla prima. In pratica, si può sostituire il costo di acquisto originario con il valore di mercato al 1° gennaio 2025, cioè il prezzo di quotazione rilevato sulla piattaforma dove si detiene l’investimento, e pagare un’imposta sostitutiva pari al 18% del valore di mercato. Eventuali minusvalenze future non potranno essere portate in compensazione.
L’affrancamento è una sorta di patto, o una specie di scommessa, con lo Stato: l’investitore paga in anticipo le tasse, e lo Stato in cambio offre l’opportunità di pagare un importo più basso (il 18% anziché il 26%), ma sull’intero valore dell’investimento, non solo sul provento, anche se si ha la prova di acquisto. Di ciò occorre tener conto per non cadere nell’illusione ottica del 18%. In realtà, si baratta il certo per l’incerto, e la convenienza dipende da come si muoverà il mercato dopo la data di affrancamento e dal tempo in cui si intende continuare a mantenerlo in portafoglio. È un’operazione conveniente se il guadagno dall’investimento è elevato, tanto più se si vuole vendere subito, oppure si è convinti che il suo prezzo salirà ancora. Se, ad esempio, il valore al 1° gennaio dell’investimento era 100, se affranco pago 18 (il 18% di 100), e se vendo entro fine del 2025, immaginando che il suo valore sia salito a 150, pago il 26% (dal 2026 sale al 33%) solo sul guadagno (50), ossia 13, in tutto spenderò di tasse 31. Se invece non avessi affrancato, pagherei il 26% su 150 (se non ho la prova d’acquisto), ossia 39; se ho la prova di acquisto, ad esempio 15, pago il 26% solo sul guadagno (150-15=135), cioè 35,1. Se non avessi intenzione di vendere a breve, il valore dell’investimento al momento della vendita dovrebbe scendere a circa 55 per pagare lo stesso ammontare pagato per affrancare.