L'Argentina a una svolta?

Argentina
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L’incapacità dimostrata finora dai Governi nel gestire le finanze pubbliche è stata devastante per l’economia argentina e gli investitori, spesso vittime di questa mala gestione, sono restii a investire nel Paese. E il crollo del peso – la valuta argentina – è l’emblema di questa situazione.
In poco più di sessant’anni, l’Argentina ha dovuto negoziare più di 20 volte con l’FMI (Fondo monetario internazionale) per ottenere prestiti e linee di credito di ogni tipo, diventando di gran lunga il suo principale “cliente”.
“Dollarizzazione” e riforme
Una delle priorità del neo Presidente Javier Milei, è proprio la “dollarizzazione”, ossia l’abbandono del peso e l’adozione del dollaro statunitense, abolendo la Banca Centrale argentina, spesso strumentalizzata da chi deteneva il potere. Milei intende anche ridurre la spesa pubblica del 15% attraverso la riduzione dei trasferimenti di denaro alle province, destinando i sussidi solo alle famiglie più bisognose e privatizzando. Il partito del nuovo Presidente non ha però la maggioranza al Congresso, per cui la strada di queste riforme è già in salita. La “dollarizzazione” risolverebbe davvero i problemi del Paese? Ne dubitiamo. Con l’adozione del dollaro, aumenterebbe la credibilità del Paese che avrebbe un rischio valutario ridotto, un credito molto più economico e non ci sarebbe più possibilità per la banca centrale di stampare moneta per finanziare le spese statali come ha fatto in passato. I dubbi sorgono sulla fattibilità di questa “operazione”: servirebbero infatti circa 9 miliardi di Usd, una cifra difficile da reperire per un Paese le cui riserve valutarie sono in gran parte costituite da capitali presi in prestito dalla Cina, oltre quelli provenienti chiesti quest’estate al Qatar per poter rimborsare l’FMI. Bisognerebbe poi vedere a quale tasso di cambio potrebbe essere effettuata la transizione. Inoltre, l’Argentina subappalterebbe la sua politica monetaria alla Fed (la Banca centrale americana), privandosi quindi di quegli strumenti che le permettono di orientare la propria economia.
Tra il 1992 e il 2002 - periodo durante il quale è stata mantenuta la parità tra il peso e il dollaro statunitense - l’Argentina ha visto la sua valuta apprezzarsi rispetto a quelle dei suoi vicini e dei suoi partner commerciali; il che ha portato a una netta perdita di competitività nel settore industriale e nell’economia argentina nel suo insieme. Con la “dollarizzazione”, l’Argentina rischia quindi di ritrovarsi in una situazione simile a quella del passato se la sua produttività non decolla.
In un Paese dove il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, la riduzione dei trasferimenti e dei sussidi statali rischiano di arrecare gravi danni.
Insomma, tu stai alla larga da qualsiasi investimento nel Paese: l’Argentina è esclusa infatti da tutte le nostre strategie di portafoglio.
Nel 1992, l’Argentina ha avuto un nuovo inizio, con il valore del nuovo peso fissato alla parità con il dollaro americano. Il peso è riuscito a restare ancorato al dollaro sino al 2002, ma solo a prezzo di artifici come il corralito (la limitazione dei prelievi bancari) e il corralón (la conversione forzata di conti in dollari in conti in peso al tasso ufficiale, sfavorevole al risparmiatore). Poi il valore del peso è crollato: oggi il cambio ufficiale è di circa 350 peso per 1 Usd, mentre il tasso di cambio non ufficiale (il dollaro ‘blu’), più vicino al valore reale di questa valuta che nessuno vuole, è di addirittura di circa 1060 peso per 1 dollaro. Un cambio che fa lievitare l’inflazione, oggi oltre il 140%: ciò rende difficile qualsiasi investimento - il tasso di interesse di riferimento è del 133% - e grava sull’economia, tanto che nel 2° trimestre 2023 il Pil argentino (tutta la ricchezza prodotta nel Paese) è diminuito del 4,9% rispetto allo stesso periodo del 2022.
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