Diversi fattori sono alla base della forte crescita dell’India dopo la profonda recessione del 2020. Come in tutte le economie devastate dal Covid, l’effetto di recupero ha fortemente stimolato l’attività economica dopo la revoca delle restrizioni sanitarie. Inoltre le autorità indiane hanno speso generosamente per sostenere l’attività economica, tanto che negli ultimi anni il deficit di tutti gli enti pubblici (le spese che superano le entrate) è stato di circa il 10% e sarà ancora al 9% per l’anno fiscale in corso che terminerà il 31 marzo.
Infine, la guerra in Ucraina ha rappresentato un vantaggio piuttosto che un ostacolo per l’economia indiana. L’India ha approfittato infatti delle sanzioni occidentali contro la Russia per importare massicciamente petrolio russo a prezzi scontati; il che, frenando l’inflazione, ha consentito alla Banca centrale di mantenere una politica monetaria relativamente accomodante, che ha permesso di sostenere l’attività economica. E se l’aumento delle esportazioni verso l’Europa di prodotti raffinati a partire dal petrolio russo ha giovato alle esportazioni indiane, anche le aziende locali, al passaggio, hanno realizzato enormi profitti vendendo a prezzi elevati il petrolio acquistato a prezzi scontati.
Lacune importanti
La forte crescita degli ultimi anni, dovuta essenzialmente a fattori particolari, non ha però migliorato strutturalmente l’economia indiana. L'India è, in effetti, un Paese particolarmente difficile da riformare a causa della sua natura federale, che richiede la maggioranza a livello sia federale sia statale per approvare i grandi cambiamenti. Simbolo di questa impossibilità di cambiare le cose, è l'abbandono della riforma agraria dopo quindici mesi di violente proteste contadine che hanno provocato almeno 700 morti. Questa riforma mirava, in effetti, a liberalizzare il settore e in particolare a porre fine al monopolio pubblico nell'acquisto a prezzo garantito di alcuni prodotti agricoli. L’obiettivo era attrarre investitori privati per aumentare la bassissima produttività di questo settore, che impiega quasi la metà della popolazione attiva, ma genera appena il 15% del PIL.
Le barriere interne penalizzano anche lo sviluppo dell’industria. Gli investitori stranieri sono restii a stabilirsi in India a causa dei requisiti eccessivi in termini di trasferimento di tecnologia o dell’obbligo di utilizzare fornitori locali. Le importazioni di beni intermedi, che potrebbero minacciare le imprese indiane, sono inoltre soggette a dazi eccessivi. La priorità resta, infatti, quella di salvaguardare i campioni nazionali, anche se ciò freno lo sviluppo del settore industriale che in India rappresenta solo il 20% del PIL e il 15% dell’occupazione, contro il 40% del PIL e il 30% dell’occupazione in Cina.
Una polveriera sociale
Ufficialmente dallo scorso aprile il Paese più popoloso del pianeta, l'India ha una popolazione molto giovane. Oggi quasi la metà degli indiani ha meno di 25 anni. Se adeguatamente sfruttato, quindi, l’arrivo sul mercato di questa importante manodopera potrebbe rappresentare un’enorme opportunità per il Paese e portare ad una crescita economica straordinaria. Nel caso dell’India rischia, però, di rappresentare più una calamità che una benedizione.
Il Paese non ha, infatti, abbastanza fabbriche per dare lavoro ai milioni di indiani che hanno solo due mani da offrire; il che spiega anche la feroce lotta dei contadini per salvaguardare un settore agricolo arcaico che offre a malapena alla maggior parte di loro il necessario per sopravvivere, ma che, ai loro occhi, è essenziale in un Paese che non offre alternative.
E anche i giovani provenienti da famiglie più ricche, che hanno l’opportunità di studiare, non sono messi necessariamente meglio. L'istruzione offerta nelle scuole private, che approfittano delle preoccupazioni dei genitori per moltiplicarsi a dismisura, è infatti spesso mediocre. Milioni di giovani “poco qualificati” non riescono quindi a trovare lavoro.
Anche una crescita economica del 6% non basta, quindi, a fornire un’occupazione ai 10-12 milioni di indiani che ogni anno entrano nel mercato del lavoro. Ecco perché l’80% degli indiani lavora nell’economica informale (insieme di transazioni di beni e servizi non inclusi nella contabilità nazionale, che non offrono necessariamente un salario) che è poco produttiva e offre poche speranze di progresso sociale sia per loro sia per i loro figli.
Fragilità finanziaria
L’India presenta notevoli squilibri nei conti con l’estero. Nonostante le misure protezionistiche, il Paese registra sistematicamente un deficit commerciale (le importazioni che superano le esportazioni). Nonostante il boom delle esportazioni di prodotti raffinati derivati dal petrolio russo a buon mercato, il deficit commerciale non si è ridotto poiché, al contempo, il dinamismo economico indiano ha favorito la domanda interna e quindi le importazioni.
D’altro canto visto che i risparmi delle famiglie indiane sono insufficienti a soddisfare il fabbisogno di capitali del Paese, l’India dipende sempre di più dagli investitori esteri per finanziare il suo sviluppo. Questo doppio deficit, commerciale e a livello di capitali, pesa però sulla rupia, tendenzialmente in calo sui mercato dei cambi. La valuta indiana è, inoltre, indebolita da un’inflazione strutturalmente elevata in India. Il forte deprezzamento della rupia (rispetto all’euro) atteso nei prossimi anni esclude qualsiasi investimento in India, tanto più che, al di là della forte crescita attuale, l’economia indiana dovrà superare importanti sfide per potersi garantire lo sviluppo a lungo termine.