La stagione dei rialzi è iniziata

Obbligazioni
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La Fed, la Banca centrale Usa, come oramai era ampiamente atteso ha alzato i tassi di uno 0,25%, portandoli così da un intervallo compreso tra 0 e 0,25% ad uno compreso tra 0,25% e 0,5%. La decisione arriva in scia alla conferma che gli indicatori dell’attività economica e dell’occupazione continuano a rafforzarsi, con i posti di lavoro in forte crescita negli ultimi mesi e il tasso di disoccupazione che è sceso in modo sostanziale. Inoltre, l’inflazione rimane elevata, riflettendo gli squilibri tra domanda e offerta legati alla pandemia e l’aumento dei prezzi dell’energia. In quest’ottica, con un’inflazione elevata e con un mercato del lavoro forte, ci sono tutte le basi per iniziare la stretta monetaria. Il percorso è segnato: le previsioni parlano infatti di un livello medio dei tassi a fine anno compreso tra l’1,75% e il 2%: considerando che il costo del denaro di partenza era tra lo 0% e lo 0,25%, questo significa 7 aumenti da 0,25%. Tradotto, un aumento dei tassi in ognuna delle riunioni di quest’anno. Per il 2023 sono poi previsti altri 4 rialzi, portando così il costo del denaro ad un livello compreso tra il 2,75% e il 3%. Dopo tutto un intervento per arginare l’inflazione è necessario e questo non solo perché il carovita rasenta l’8%, ma perché, come puoi vedere nel grafico, le attese sull’inflazione futura sono sempre più alte.
Carovita attuale e quello atteso
La linea in grassetto rappresenta l’inflazione Usa su base annua. Quella sottile è, invece, l’inflazione media per i prossimi 5 anni attesa dal mercato.
Se le attese sul carovita dei prossimi anni, superiori al 3%, si radicano e diventano una convinzione da parte del mercato, il rischio è che quelle che sono semplici aspettative di prezzi più alti si materializzino nel concreto, rendendo così strutturale un tasso d’inflazione più elevato. Ecco perché le Banche centrali, come la Fed, intervengono con il rialzo dei tassi: serve non solo per arginare l’aumento presente dell’inflazione, ma anche per convincere il mercato che in futuro l’inflazione sarà sempre sotto controllo.
La Fed non si è, però, limitata ad annunciare il rialzo dei tassi. Le incertezze dovute alla situazione ucraina hanno infatti costretto la Banca centrale Usa a tagliare le stime del Pil del 2022 a +2,8%, contro il +4% indicato a dicembre - ma sono confermati i dati per il 2023 (2,2%, come a dicembre) e per il 2024 (2%). Sulla frenata dell’economia Usa in questo 2022 il governatore Powell ha voluto, però, rassicurare che sebbene il taglio delle stime sia importante, un tasso di crescita al 2,8% rimane molto buono.
I prodotti per puntare sul dollaro Usa (-0,2%; ce ne vogliono 1,10 per fare un euro) sono: iShares $ treasury 1-3y acc B (-1,5%), AXA WF US Dynamic HY bonds A (+0,2%) e iShares $ High Yield Corp Bond (-0,2%).
Per quanto riguarda l’inflazione, invece, le nuove stime parlano di un rialzo per tutto l’orizzonte temporale di analisi: quindi il carovita ora è previsto più alto rispetto alle stime di dicembre sia per il 2022, sia per il 2023 e 2024.
Per la terza volta consecutiva la Banca centrale inglese ha alzato i tassi di interesse, portandoli allo 0,75%. Le attese della stessa Banca centrale sono per un’inflazione che raggiungerà l’8% alla fine del secondo trimestre. A differenza di quanto avviene per le azioni, i bond in sterline non sono da acquistare (www.altroconsumo.it/investi/investire/mercati-e-valute/ultime-notizie/2022/03/bank-of-england).
INFLAZIONE: PROBLEMA (QUASI) PER TUTTI
Completamente diverso l’atteggiamento della Banca centrale giapponese, che ha invece deciso di lasciare del tutto invariata la sua politica monetaria, ultra-espansiva. I tassi rimangono a -0,1%, così come rimane l’obiettivo di mantenere attorno allo zero il rendimento delle obbligazioni a 10 anni. Dopotutto, in Giappone l’inflazione non è, come sempre, un problema: a febbraio il carovita annuale si è, infatti, attestato allo 0,9%. Ed è proprio l’inflazione la variabile su cui più potrebbe impattare maggiormente il conflitto ucraino. Secondo il governatore della Bank of Japan, l’economia giapponese subirà l’aumento dei prezzi delle materie prime e questo porterà a un aumento del carovita, ma non ai livelli visti negli Usa o in Europa: l’inflazione è prevista muoversi attorno al 2% da aprile e per qualche tempo in avanti. Di conseguenza, con un’inflazione che nel picco causato dalle materie prime arriverà solo al 2% e con le incertezze su quanto peserà il rincaro sulla crescita economica, la Bank of Japan può permettersi di proseguire sulla strada di una politica monetaria generosa.
Sempre in tema di inflazione, in Europa il carovita si fa sentire, a differenza di quanto avviene nel Sol Levante. In Svezia a febbraio i prezzi sono aumentati del 4,3% annuo, in accelerazione rispetto al +3,7% di gennaio e al +3,9% atteso dal mercato. Anche nella zona euro i prezzi corrono e lo fanno anche in maniera più spedita del previsto. A febbraio l’inflazione annua è risultata del 5,9%, un dato che ha addirittura rivisto al rialzo la stima preliminare (+5,8%). I prezzi dell’energia sono i principali responsabili di questo andamento (+32% in un anno), ma anche se si escludono alimentari, alcol e tabacco, il carovita fa segnare +2,7%, contro il 2,3% di gennaio. Dunque, anche al netto delle componenti più volatili, il carovita è superiore al 2% obiettivo della Bce. Proprio dalla Bce fanno però sapere che, visto le incertezze e i rischi che potrebbero essere generati dal conflitto in Ucraina, il piano di riduzione degli stimoli monetari potrebbe anche essere rivisto.
I prodotti per puntare sui bond della zona euro sono confermati: Xtrackers II iBoxx Eurzn Gv Bd YP 1-3 (prezzo invariato questa settimana) e Amundi high yield liquid (+1,3%).
UNA SINTESI DEI MERCATI
Sui mercati la settimana è stata contraddistinta, a livello valutario, da un apprezzamento delle valute scandinave (+1,1% la corona norvegese e +2,1% quella svedese) e da un calo di quelle extra-europee: il risultato peggiore è stato quello dello yen giapponese (-2,7%). Sul fronte dei tassi d’interesse, invece, nella zona euro, in media, sono saliti dello 0,1%, mentre negli Stati Uniti dello 0,14% - parliamo di scadenze a dieci anni. Sono movimenti che non portano a modificare i nostri portafogli, che sono dunque confermati.
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