La musica italiana torna su Instagram

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La Siae è l’ente italiano che fa da intermediario per la riscossione dei diritti d’autore in Italia, ovvero dei riconoscimenti per chi crea, per esempio, opere musicali. L’utilizzo di musica nei video o nelle storie sui social network deve avere un giusto riconoscimento monetario ed è sull’entità di tale riconoscimento che le trattative da Siae e Meta (246,85 Usd; Isin US30303M1027) si erano arenate nei giorni scorsi. L’accordo è stato ora trovato – anche se ha una durata limitata di circa 6 mesi – e fa felici tre categorie di persone. Primo: i creatori di contenuti digitali, che hanno visto i loro video rimossi o “limitati” negli scorsi giorni. Secondo: Meta, visto che comunque le limitazioni potevano deviare i creatori di contenuti su altre piattaforme – è un sospiro di sollievo che comunque non ci porta a cambiare il consiglio sulle azioni Meta: limitata a mantenerle. Terzo: gli artisti e in generale l’industria musicale che li rappresenta. Sono loro i principali beneficiari dell’accordo sia per il rischio di mancata diffusione della musica italiana a livello internazionale, sia per gli introiti che sono appunto legati alla fruizione della musica sui social network. Si stima che nel 2013 circa il 13% della fruizione globale di musica si passata attraverso i video sui social network, ma il dato sale a un bel più rilevante 64% se si considerano tutte le forme di fruizione digitale (quindi anche video o piattaforme di streaming; escludendo la fruizione via radio, gli acquisti di vinili e cd e la fruizione tramite la partecipazione ai concerti).
Il mercato italiano musicale ha registrato una crescita di circa l’11% nel corso del 2022, anche se è scivolato al di fuori dei primi 10 più importanti al mondo – la classifica è dominata dagli Stati Uniti e ricomprende anche il Brasile e la Corea del Sud.
Non a caso a chiedere a gran voce l’accordo tra Siae e Meta era la Fimi, federazione che raggruppa le principali case discografiche presenti in Italia – gli introiti vengono condivisi in misura variabile dalle case discografiche con i propri artisti.
I dati che abbiamo appena riportato riguardano la fruizione della musica da parte degli utenti e non sorprende che si riflettano sui ricavi dell’industria musicale, che nel 2022 ha ottenuto circa il 67% del proprio giro d’affari grazie all’ascolto della musica in streaming – parliamo sia dell’ascolto vero e proprio di canzoni tramite piattaforme come Spotify o Apple Music, sia della fruizione di musica tramite l’associazione a video o storie sui social network. Ed è stata proprio la riproduzione della musica in streaming ad aver ridato splendore a un’industria musicale che sembrava destinata al declino, vessata soprattutto dal fenomeno della pirateria musicale. Tutti gli introiti dell’industria musicale nel 2022 hanno superato la soglia dei 26 miliardi di dollari, il valore più alto dal 1999 e in crescita di circa il 9% rispetto al 2021 che già era stato un anno record. La crescita media del giro d’affari dell’industria musicale è stata di circa il 10,5% nel corso degli ultimi 5 anni – tassi “cinesi” di un tempo, verrebbe da dire – e le prospettive, grazie alla sempre maggiore propensione al pagamento di abbonamenti ai servizi di streaming, come dimostrato da alcuni colossi del settore nel corso del primo trimestre del 2023, rendono, al momento, le prospettive dell’industria discografica mondiale ancora rosee. Come è possibile approfittarne?
I ricavi derivanti dalla fruizione “fisica” della musica sono ormai ridotti a un 18% del totale degli introiti globali e per lo più legati alla vendita dei “vinili”.
All’incirca un anno fa (vedi n° 1463), avevamo identificato le azioni della casa discografica Universal Music (19,065 euro; Isin NL0015000IY2) come quelle migliori per scommettere su una crescita a ritmi sostenuti dell’industria musicale. In effetti, fino a febbraio di quest’anno le azioni sono andate bene con guadagni anche del 20% (a dividendi inclusi) rispetto al nostro primo consiglio. Merito dei buoni conti per il 2022: Universal ha, infatti, registrato una crescita dei ricavi di ben il 21,6% (+13,6% a cambi costanti), superiore a quella media dell’industria musicale mondiale, un incremento degli utili (al netto delle componenti non ricorrenti) del 14,4% e una contrazione del livello di indebitamento di circa il 10%. Poi, però, soprattutto nel mese di aprile è iniziata una contrazione che ha portato il risultato della scommessa in calo del 6,6% (dividendi esclusi) rispetto al nostro consiglio. Due i motivi di questo calo. Primo: i conti del primo trimestre non hanno convinto il mercato. Un po’ la crescita dei ricavi (+9,3% a cambi costanti rispetto allo stesso periodo del 2022) è sembrata rallentare rispetto alla media del 2022, un po’ la redditività, pure al netto di alcune poste non ricorrenti, è parsa in ulteriore rallentamento rispetto a quanto visto in media nel 2022. Secondo: i rischi che arrivano dal successo dell’intelligenza artificiale. Sta aumentando, infatti, la quota di brani superiori ai 31 secondi (quindi monetizzabili) che vengono generati tramite l’intelligenza artificiale e che vengono immessi sulle piattaforme di streaming: questo rischia di togliere introiti alle case discografiche che gestiscono artisti “reali” (il peso dei brani delle principali compagnie discografiche su Spotify è sceso al 75% dall’87% del 2017).
L’anno nero per l’industria discografica mondiale è stato il 2014, precedente alla rivoluzione dello streaming: il giro d’affari era stato la metà di quello del 2022.
Sebbene le incognite legate all’intelligenza artificiale siano molte, per ora la minaccia sembra contenibile. Spotify, per esempio, ha già iniziato a rimuovere decine di migliaia di “mini brani” creati in modo artificiale solo per incassare i diritti di streaming. Inoltre, la stessa Universal ha iniziato un dialogo con la piattaforma Deezer per aumentare i riconoscimenti ad artisti “reali”. Anche la crescita non ci sembra compromessa. Universal non solo vanta tra gli artisti di più successo al mondo (4 su primi 5 della classifica globale di Spotify nel 2022, per esempio), ma sta investendo anche in mercati, come quello brasiliano o quello asiatico (il gruppo coreano BTS è gestito da Universal, per esempio) che hanno prospettive di crescita rilevanti per il futuro. Insomma, Universal ha bilanci di buona qualità, prospettive di crescita e indicatori di convenienza delle proprie azioni che sono allineati o persino migliori di quelli di altri attori del settore. Una scommessa ci sta, per quanto rischiosa e, ancora più con la minaccia dell’intelligenza artificiale, non riservata agli investitori prudenti. Le azioni Universal si acquistano sulla Borsa di Amsterdam.
Spotify (151,48 Usd; Isin LU1778762911), la nota piattaforma di streaming musicale, ha chiuso il primo trimestre del 2023 con una crescita delle sue attività superiore alle attese: gli utenti che ascoltano musica tramite i suoi servizi hanno superato i 500 milioni (+22%), mentre quelli che hanno un abbonamento a pagamento – altri ascoltano gratuitamente, ma con annunci pubblicitari – si sono attestati a circa 210 milioni (+15%). Ciò, però, non ha impedito alla società di chiudere il trimestre ancora una volta in perdita. Non ci aspettiamo utili né per quest’anno, né per il prossimo e le azioni ci sembrano sopravvalutate. Non acquistare.
Il rapporto tra prezzi di Borsa e utili attesi al 2025 – pensalo come il prezzo al chilo delle mele, più è basso più sono convenienti – è pari a 18 per Universal Music contro il 19,4 delle Warner Music (26,07 Usd, Isin US9345502036; non acquistare), altro colosso dell’industria musicale.
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