Dazi: conto amaro per il vino

Dazi sul settore vino
Dazi sul settore vino
Negli ultimi anni, i dazi doganali sono tornati al centro del dibattito commerciale internazionale, e il vino è diventato uno dei settori simbolo di questa tensione. Con “dazio” si intende una tassa applicata dal Paese importatore sui beni che arrivano dall’estero: una misura che può servire a proteggere i produttori locali, a riequilibrare i rapporti commerciali o, più semplicemente, come leva di pressione politica.
Nel caso degli Stati Uniti, a partire dal 2025 è stato introdotto un dazio minimo del 10% su tutte le importazioni di vino, con aliquote più alte per alcuni Paesi chiave. Francia, Italia, Spagna e Germania – che insieme rappresentano oltre due terzi del vino importato dagli Usa – sono soggette a un’imposta del 20%, mentre i vini sudafricani pagano addirittura il 30% e quelli israeliani il 17%. In pratica, una bottiglia che arriva sugli scaffali degli Usa si ritrova subito con un sovrapprezzo significativo, destinato a ricadere sul consumatore finale.
La scelta di colpire con dazi più elevati i grandi Paesi produttori europei non è casuale. L’Unione Europea è da sempre il cuore pulsante del commercio mondiale di vino: sette bottiglie su dieci importate negli Stati Uniti provengono dall’Europa, e i marchi più noti – dallo Champagne francese al Prosecco italiano – fanno parte di questa fetta.
Un dazio del 20% su questi prodotti significa, in molti casi, mettere a rischio la competitività sul mercato americano. Non è un dettaglio da poco: gli Usa sono il primo importatore mondiale di vino, e per Paesi come l’Italia rappresentano un mercato vitale. In questo scenario, non solo i produttori europei devono rivedere i loro listini e le loro strategie di distribuzione, ma anche gli importatori americani si trovano a dover fare i conti con margini ridotti e difficoltà a mantenere prezzi accessibili per i clienti.
I dazi non colpiscono soltanto il vino finito. Per la filiera, la questione è più complessa: i costi aumentano anche su una serie di materie prime fondamentali. Prendiamo ad esempio i barili di rovere, indispensabili per l’affinamento dei vini: un dazio del 10% su questo materiale può trasformarsi in milioni di dollari di spese extra ogni anno per un grande produttore.
Lo stesso vale per i tappi in sughero, le bottiglie di vetro e i barili d’acciaio usati in cantina, che in parte provengono dall’estero e che ora possono subire rincari del 25% se arrivano da Paesi come il Messico.
Senza dimenticare i dazi sull’alluminio e sull’acciaio, già fissati in alcuni casi fino al 50%, che fanno lievitare i costi di confezionamento e trasporto. In sostanza, non è solo il vino importato a diventare più caro: anche quello prodotto negli Stati Uniti rischia di risentire di queste misure, perché la catena di approvvigionamento è ormai globale.
Gli effetti pratici di questi dazi si vedono già sul mercato. I consumatori americani si trovano a pagare bottiglie europee più care, con rincari che, per etichette di fascia media, possono significare diversi dollari in più al dettaglio, mentre per i vini di fascia alta la differenza può diventare ancora più marcata. Gli importatori e distributori di piccole e medie dimensioni sono tra i più colpiti, perché hanno meno margini per assorbire i costi e meno potere contrattuale con le catene di vendita: alcuni rischiano di uscire dal mercato. Nemmeno i produttori statunitensi possono dormire sonni tranquilli. Se da un lato qualcuno spera che i dazi diano più spazio al vino californiano o dell’Oregon, dall’altro c’è la concreta paura di ritorsioni da parte dell’Europa, che in passato non ha esitato a rispondere con dazi mirati su prodotti americani, compreso il bourbon del Kentucky. Alla fine, dunque, i dazi rischiano di trasformarsi in un gioco a somma negativa, in cui tutti – produttori, distributori e consumatori – finiscono per perdere qualcosa.
Un caso emblematico è quello di Brown-Forman Corporation (31,04 Usd; Isin US1156372096) gigante americano degli alcolici, noto soprattutto per il Jack Daniel’s ma con interessi significativi anche nel vino grazie a etichette come Sonoma-Cutrer.
La compagnia ha vissuto direttamente gli effetti delle guerre commerciali tra Stati Uniti ed Europa: dazi europei sul bourbon hanno ridotto la sua competitività, mentre le tariffe Usa sulle importazioni di vino europeo hanno alterato il panorama competitivo, incidendo anche sul posizionamento dei suoi marchi californiani. Brown-Forman ha risposto puntando sui prodotti di fascia alta: consolidamento del whiskey premium, spinta sulla tequila e valorizzazione dei vini di pregio come Sonoma-Cutrer.
Il vino non rappresenta la quota maggiore del fatturato, ma gioca un ruolo strategico di immagine e completamento del portafoglio, soprattutto nei mercati internazionali. La sua capacità di bilanciare superalcolici e vino le permette di attraversare meglio le fasi di instabilità tariffaria, pur restando esposta a eventuali nuove ritorsioni commerciali.
In Europa, e in particolare in Italia, la questione è ancora più sensibile.
Dal momento del nostro consiglio di acquisto, a inizio aprile di quest’anno, sei in perdita del 16% circa (in euro e dividendi inclusi). L’andamento, negativo per te in questo caso, del cambio euro-dollaro Usa ha influito negativamente sul risultato.
Secondo i nostri modelli di valutazione, i multipli di Brown-Forman Corporation, per il 2026, restano migliori di quelli del settore per il 2026, (per esempio, il rapporto prezzo/utili è 18,81, contro il 35,14 del settore), il momentum è negativo, ma la qualità dei risultati resta buona.
Il titolo in Borsa è praticamente ai minimi storici: a questi prezzi, se non lo hai fatto, puoi pensare di scommettere qualcosa sulla ripresa del settore.
Se lo hai già in portafoglio, invece, non incrementare la quota in tuo possesso. Ricorda, non è un investimento mordi e fuggi.
Italian Wine Brands (22,1 euro; Isin IT0005075764) è oggi uno dei pochi gruppi vinicoli italiani quotati, con un fatturato superiore ai 400 milioni di euro e una crescente redditività. La società ha costruito la propria forza sulle acquisizioni (Enoitalia, Giordano, Barbanera) e sulla capacità di distribuire in modo capillare all’estero.
I dazi americani, fissati al 20% per i vini provenienti dall’Ue, rappresentano una minaccia concreta per un’azienda che trova negli Stati Uniti un mercato chiave. Tuttavia, IWB ha scelto di reagire attraverso il rafforzamento dei marchi premium e una maggiore efficienza organizzativa: una strategia che le ha permesso di mantenere margini record, persino in un contesto di calo dei volumi.
Un approccio diverso è quello di Masi Agricola (4,1 euro; Isin IT0004125677) storica realtà veneta nota per l’Amarone. Essendo più concentrata sul segmento dei vini di pregio e sull’export in mercati diversificati, Masi subisce l’effetto dazi sul fronte Usa, ma può compensare grazie al forte radicamento europeo e alla riconoscibilità internazionale del marchio. In questo senso, la resilienza è legata al posizionamento alto di gamma: un consumatore disposto a spendere per un Amarone iconico sarà meno sensibile all’aumento di prezzo rispetto a chi acquista vini di fascia media.
Sempre sul fronte europeo, gruppi francesi come Laurent-Perrier (92,8 euro; Isin FR0006864484), Lanson-BCC (37 euro; Isin FR0004027068) e Advini (12,1 euro; Isin FR0000053043) hanno mostrato vulnerabilità al contesto tariffario.
Il settore dello Champagne è tra i più penalizzati: un dazio del 20% applicato a un prodotto che già si colloca nella fascia alta di prezzo rende il rischio di contrazione della domanda reale, soprattutto per i mercati secondari al di fuori delle grandi metropoli Usa.
Laurent-Perrier e Lanson-BCC, che basano gran parte del loro prestigio sulle esportazioni negli Usa, hanno dovuto assorbire i costi o trasferirli ai consumatori, con effetti potenzialmente negativi sulla competitività. Advini, più diversificata e radicata anche in partnership internazionali, risente comunque della pressione sui margini, ma beneficia di un portafoglio che spazia oltre la Francia e include collaborazioni con realtà italiane.
Sul fronte nordamericano, realtà come Constellation Brands (158,37 Usd; Isin US21036P1084) Boston Beer Company (216 Usd, Isin US1005571070 ) e Molson Coors Beverage (50,33 Usd; Isin US60871R2094) presentano dinamiche differenti. Constellation, colosso che genera oltre 10 miliardi di dollari l’anno, ha visto il segmento Wine & Spirits ridursi rispetto alla birra, che oggi pesa per oltre l’80% del fatturato.
I dazi, in questo senso, accelerano una tendenza già in corso: la cessione dei marchi vinicoli meno redditizi e il focus sui brand a più alta marginalità. Boston Beer e Molson Coors operano invece in un comparto quasi esclusivamente birraio: sono quindi meno direttamente colpite dai dazi sul vino, ma restano vulnerabili alle tariffe sull’alluminio e sull’acciaio, fondamentali per lattine e impianti produttivi.
Infine, realtà più piccole come Willamette Valley Vineyards (4,34 Usd; Isin US9691361003), nell’Oregon offrono prospettive differenti. Wilamette si concentra sul Pinot Noir di alta qualità e resta fortemente dipendente dal mercato interno statunitense, subendo quindi solo indirettamente gli effetti delle tariffe. Non
Nel complesso, l’attuale scenario dei dazi sta ridisegnando le mappe competitive.
Le grandi multinazionali come Brown-Forman e Constellation possono contare su portafogli diversificati e strategie di riposizionamento, mentre i gruppi vinicoli europei – soprattutto italiani e francesi – affrontano rischi più diretti sui volumi e sui margini.
Le imprese che riusciranno ad adattarsi saranno quelle capaci di muoversi verso segmenti premium, di ottimizzare i costi interni e di consolidare la propria presenza nei mercati emergenti. In questo quadro, l’Italia gioca un ruolo centrale: pur penalizzata dai dazi, continua a puntare sulla forza dei suoi marchi e sulla riconoscibilità globale del proprio patrimonio enologico.
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