No alla guerra tra monete
Da diversi anni il dollaro americano è ai suoi massimi sia rispetto all'euro sia nei confronti di molte altre valute, tra cui lo yen giapponese, la sterlina britannica e lo yuan cinese. L'ultima volta che il biglietto verde aveva raggiunto livelli simili, Washington si era affrettata ad accusare il resto del mondo di manipolare le rispettive valute per rimanere competitivi sui mercati internazionali e erano seguite minacce di misure restrittive del commercio contro la Cina, la Svizzera e persino la zona euro. Oggi lo scenario è ben diverso: a preoccupare la Casa Bianca e la Fed (la Banca centrale americana) non è il dollaro forte, ma l’inflazione. E, per combatterla, il cambio relativamente elevato della loro moneta è un prezioso alleato: il prezzo di riferimento della maggior parte delle materie prime è proprio il dollaro americano; le quotazioni del petrolio, ad esempio, sono cresciute di oltre il 60%. Questo rincaro già di per sé importante per i consumatori americani, lo è ancora di più per quelli della zona euro o giapponesi poiché, allo stesso tempo, l’euro e lo yen hanno perso rispettivamente il 13% e il 15% sul biglietto verde. In questo momento, la forza del dollaro è, quindi, soprattutto un problema più “nostro” che degli americani. Proprio per questo non riteniamo che gli Stati Uniti intervengano, almeno a breve termine, per frenarne il rialzo.
Chi vuole un dollaro forte
Non tutto il pianeta ha, comunque, fretta che il dollaro scenda. Il mondo è oggi più interconnesso che in passato e la maggior parte dei prodotti che acquistiamo sono assemblaggi di componenti provenienti da tutto il mondo, cosa che limita i vantaggi legati a una moneta debole. Non bisogna, tuttavia, fraintendere questo ragionamento: l'effetto moneta sulla competitività delle imprese non è del tutto scomparso. Il dollaro caro è – come avveniva in passato – un vantaggio per alcune delle nostre imprese e quelle economie che hanno un alto tasso di esportazioni, come quelle della zona euro. Di fronte al rallentamento di Europa e Cina, gli Usa restano, in effetti, uno dei mercati più dinamici del pianeta e un euro debole consente alle nostre aziende di rimanere competitive su questo mercato. Inoltre, la debolezza della nostra moneta aiuterà a gonfiare i profitti realizzati in dollari una volta rimpatriati e convertiti in euro. Certo in un momento in cui i costi di produzione sono in aumento e le aziende faticano a trasferirli ai consumatori (e quindi i loro margini sono sotto pressione), una buona presenza negli Stati Uniti rappresenta una bella boccata d'ossigeno per le società europee che vendono negli Stati Uniti. Mentre i Paesi ricchi di risorse naturali vedono impennare le loro esportazioni pagate in dollari e, di conseguenza, le loro riserve in valuta estera aumentano.
E quali Paesi preferiscono un dollaro debole
Ma, ahimè, c’è anche chi ci perde. Il dollaro forte favorisce, infatti, l'inflazione quasi ovunque poiché fa impennare i prezzi dei prodotti importati una volta convertiti in monete locali. Il fenomeno dell’impennata dell’inflazione, importante in Occidente, sta prendendo piede ovunque, con effetti devastanti sul potere d'acquisto dei consumatori. Ne vediamo già le conseguenze – e l'impatto economico – in Europa. E se quasi ovunque al mondo, le Banche centrali cercano faticosamente di trovare il giusto equilibrio tra lotta all'inflazione e crescita economica, l’impatto dell’inflazione è più forte nei Paesi più poveri, dove lo Stato non ha necessariamente i mezzi per intervenire e per venire in aiuto delle popolazioni che, a causa dell’impennata dei prezzi, vengono private anche dell'accesso ai beni essenziali.
Allo stesso tempo, se gli investitori ricercano sicurezza nei titoli americani e i tassi americani aumentano, l’accesso al credito diventa sempre più difficile e costoso per l’intero pianeta. Questo doppio impatto è particolarmente evidente in quei Paesi che hanno finanze poco solide o politiche monetarie, fiscali o di bilancio che non attraggono gli investitori.
Sì alle obbligazioni in dollari e alla Borsa Usa
Ai livelli attuali, il dollaro americano è sopravvalutato rispetto all'euro e alla maggior parte delle altre principali valute. Questo allontana l’investitore dal mercato statunitense? Non proprio. La forza della valuta americana sembra destinata a perdurare perché a medio e lungo termine è difficile trovare un altro Paese che possa offrire prospettive altrettanto allettanti. La zona euro, ad esempio, pagherà per anni la transizione energetica e la fine dei legami con la Russia; ti confermiamo il consiglio di restarne alla larga.
Per questi motivi, le obbligazioni in dollari americani sono presenti per 5% in tutte e tre le nostre strategie d’investimento - difensiva, equilibrata e dinamica. Idem dicasi per la Borsa americana, che deve rappresentare il 5% degli investimenti di chi segue la nostra strategia difensiva, il 10% se si è un investitore equilibrato e il 15% se ci si riconosce nella strategia dinamica.