Il Bitcoin traballa ancora
Il BitCoin è un asset ad alto rischio, che può offrire guadagni importanti ma con oscillazioni forti, e le previsioni più rosee vanno lette con molto pragmatismo.
Il BitCoin è un asset ad alto rischio, che può offrire guadagni importanti ma con oscillazioni forti, e le previsioni più rosee vanno lette con molto pragmatismo.
Negli ultimi tempi Bitcoin ha perso terreno rispetto ai massimi raggiunti, e molti investitori vivono una fase di scoramento. Il motivo non è un singolo evento: si tratta piuttosto di un insieme di scosse sul mercato globale che stanno mettendo alla prova anche asset come le criptovalute, una volta viste come rifugi alternativi.
In primo luogo, ci sono i segnali delle banche centrali, in particolare la possibile stretta monetaria in paesi come il Giappone, stanno cambiando lo scenario: quando il denaro diventa più caro, gli investitori tendono ad abbandonare attività rischiose o speculative, e Bitcoin viene percepito come un investimento con rischio alto. Al contempo, la crescente attenzione verso normative più stringenti e i timori per la stabilità degli strumenti collegati alle criptovalute hanno aumentato l’incertezza.
A complicare le cose, alcune importanti società che detenevano Bitcoin come riserva digitale stanno smettendo di garantire impegni eterni di acquisto. Se una grande azienda segnala che in caso di stress finanziario potrebbe vendere, anche se dichiarato come extrema-ratio, questo mina una parte della fiducia sul ruolo stabilizzatore di Bitcoin sul mercato.
In tutto questo, però, c’è chi continua a vedere la crisi come un’opportunità, sostenuto soprattutto da una forte domanda istituzionale tramite fondi quotati (ETF) e da acquisti da parte di compagnie e tesorerie aziendali.
Questa visione si basa sull’idea che il mercato delle criptovalute non funzioni più solo come in passato, legato ai cicli di “halving” (la riduzione periodica della nuova moneta emessa), ma abbia ormai acquisito caratteristiche tipiche di altri investimenti: domanda istituzionale, regolamentazioni, liquidità globale.
Rischi e prospettive
Insomma: la “patata bollente” di Bitcoin oggi è nelle mani delle istituzioni finanziarie, delle dinamiche globali di tassi e liquidità, e delle decisioni, non sempre prevedibili, degli investitori più grandi. Per un risparmiatore “normale”, il messaggio è chiaro: si tratta di un asset ad alto rischio, che può offrire guadagni importanti ma con oscillazioni forti, e le previsioni più rosee vanno lette con molto pragmatismo. Noi restiamo molto scettici sul fatto che il buon padre di famiglia debba dedicare spazio a un simile investimento. Non stiamo dicendo con questo che il BitCoin sia come i tulipani nell’Olanda del 1600 (vedi riquadro sotto), visto che i tulipani erano principalmente commodity ornamentali, mentre Bitcoin rappresenta una tecnologia con potenziale sistemico, ma certamente come i tulipani di allora, trattandosi di un bene il cui uso di per sé è piuttosto limitato (come mezzo di pagamento ormai è superato tecnologicamente da altre criptovalute) il suo valore in termini di valuta corrente (dollari o euro che dir si voglia) si regge principalmente sull’interesse ai fini di investimento che si è costruito intorno. È un equilibrio in cui è molto difficile valutare la congruità. Certo lo scommettitore può farci un pensiero (e in passato c’è chi ci ha guadagnato pure tanto) a suo rischio e pericolo, ma scommettere è una attività diversa rispetto all’investire e su questo occorre fare sempre bene mente locale, per non confondere i mercati con una bisca. Al di là della terminologia, spesso comune al mondo delle scommesse, ci sono differenze importanti.
La tulipanomania
Nel Seicento i Paesi Bassi erano uno dei centri economici più ricchi d’Europa. Amsterdam era una potenza commerciale globale e la nuova borghesia urbana cercava beni di lusso capaci di mostrare status e raffinatezza. È in questo contesto che arrivarono i tulipani, importati dall’Impero Ottomano: fiori allora sconosciuti in Europa, dalla forma elegante e dai colori vivaci, soprattutto quelli “fiammati”, resi particolari da un virus naturale che creava striature uniche sui petali.
La rarità e la bellezza di queste varietà fecero esplodere una vera corsa all’acquisto. Prima iniziarono i collezionisti, poi mercanti, artigiani e perfino famiglie comuni attratte dall’idea di guadagnare facilmente. Si sviluppò così un mercato di contratti e promesse di acquisto dei bulbi prima ancora che fiorissero, una sorta di proto-mercato dei derivati. I prezzi salirono rapidamente: alcuni bulbi rari potevano valere quanto una casa o il reddito di un anno di un artigiano benestante.
Il culmine fu nell’inverno del 1636-1637. Le negoziazioni avvenivano nelle taverne, e i bulbi più richiesti cambiavano mano più volte in un giorno senza che nessuno li avesse mai visti. Ma a febbraio 1637 qualcosa si incrinò: durante un’asta in cui ci si aspettava l’ennesimo rialzo, gli acquirenti non si presentarono. La fiducia evaporò e i prezzi crollarono quasi da un giorno all’altro. Molti rimasero con contratti ormai senza valore; altri riuscirono a minimizzare le perdite grazie a un intervento moderatore delle autorità, che trasformò molti obblighi d’acquisto in piccole penali.
Nel giro di poche settimane la mania si spense. L’impatto sull’economia olandese, però, non fu devastante come spesso raccontato: la ricchezza dei Paesi Bassi rimase solida, ma l’episodio divenne un simbolo potente di come psicologia collettiva, moda e speculazione possano combinarsi per gonfiare bolle irrazionali.
Da allora la “tulipanomania” è diventata una metafora universale per descrivere ogni mercato che sembra perdere contatto con la realtà.