A lanciare l’allarme è stata l’islandese HS Orka, società energetica del Paese vichingo. Pare che l’isola sia scelta come meta da chi intende mettere su una sala server per minare Bitcoin (10.196 dollari Usa): il clima freddo renderebbe meno oneroso il raffreddamento dei computer. Il problema è che l’Islanda è sì estesa un terzo dell’Italia, ma è popolata come la provincia di Lecco, per cui le sue esigenze di kilowatt sono sempre state modeste e così la loro produzione (rinnovabile ed ecologica al 100%). In una intervista alla BBC un portavoce di HS Orka ha detto di temere che si arrivino a usare 840 gigawatt per produrre Bitcoin, contro i 700 gigawatt consumati ogni anno dalle famiglie islandesi. Una situazione insostenibile. Secondo alcune fonti (per esempio https://digiconomist.net/bitcoin-energy-consumption) ogni transazione richiede alcune centinaia di kilowattora per essere validata. Coi costi che si pagano da noi si arriva facilmente ai 100 euro a transazione. In Italia l’energia è cara, tra costi di trasporto e tasse, e che il dato in Cina, dove sta la maggior parte dei server e dove si brucia carbone, è senz’altro più basso, ma anche fosse un quarto sono comunque cifre assurde. Sembra quasi che “minare” Bitcoin, cioè produrli o validare una transazione sia divenuto costosissimo. È difficile capire dove sta la verità, ma è chiaro che se la produzione dei Bitcoin dovesse generare problemi energetici, le autorità di mezzo mondo bandirebbero questa tecnologia per motivi ambientali come per le lampadine a incandescenza e i termometri a mercurio. Ferma restando la bontà dell’idea (blockchain) alle spalle, i Bitcoin rischiano di passare alla storia come brutta realizzazione di una buona idea. Il ridimensionamento del Bitcoin appare, alla luce di quanto detto, sensato.
IL BITCOIN NON CORRE PIU'
Oggi vale poco più di metà (il grafico è in dollari) rispetto ai picchi raggiunti lo scorso dicembre. Il crollo dai massimi è stato pesante e ora sembra essersi arrestato. Il valore dei Bitcoin a inizio febbraio è rimasto per un po’ all’incirca tra i 7.000 e i 9.000 euro, poi settimana scorsa ha rialzato la testa. Tuttavia i problemi per la criptovaluta più famosa del mondo non sembrano ancora essere finiti.
Il punto sulle quotazioni
La situazione del Bitcoin la vedi chiaramente nel grafico Il Bitcoin non corre più: siamo stabilmente sotto i massimi dicembre e per un paio di settimane a febbraio il Bitcoin si è mantenuto tra i 6.874 e gli 8.899 dollari, per poi risalire oltre 10.000 solo giovedì scorso. È presto per dire se si stabilizzerà su questi livelli (analisi basati sull’analisi tecnica, con risultati diversi a seconda del metodo e dei dati usati, sono disponibili un po’ ovunque). Tuttavia, il mercato sta lentamente guadagnando nuova consapevolezza nei confronti dei limiti strutturali del Bitcoin e quindi i successi strepitosi dei primi undici mesi e mezzo del 2017 sembrano un ricordo del passato. Al solito, il buon padre di famiglia dovrebbe starne alla larga.
Gibilterra in pole position per regolamentare le Ico
Il territorio d’oltremare britannico sta studiando su come regolamentare le offerte iniziali di criptovalute (la forma di finanziamento di progetti tramite l’emissione di criptovalute come i Bitcoin di cui ti abbiamo parlato l’ultima volta in AF 1255). Le autorità della piccola penisola pensano di introdurre il concetto di “sponsor autorizzato” ossia un soggetto sia giuridicamente responsabile perché l’Ico fornisca informazioni adeguate alle regole vigenti nel mondo finanziario. È probabile che Gibilterra faccia solo da apripista, altri certamente seguiranno. Che le autorità si muovano è positivo perché così facendo potrebbero rendere più agibile il mondo delle Ico che, al momento, è solo un pericoloso Far West. Tra l’altro il fumoso contesto regolamentare è un problema in cui si è imbattuta pure Kodak il cui Kodakcoin è stato rinviato proprio per capire meglio il contesto legale in cui si opera.