Endesa
ES0130670112Il nostro consiglio
Indicatore di rischio
Primo pilastro: il valore
Quanto valgono le azioni di una società? E il mercato le sta sopravvalutando o sottovalutando? La risposta a queste domande rappresenta il primo pilastro del nostro modello di valutazione. Per rispondere ci concentriamo su tre aspetti giudicati particolarmente rilevanti da diversi studi in letteratura finanziaria (in fondo trovi una bibliografia essenziale). Primo: il rapporto tra prezzo di Borsa di un’azione e l’utile per azione generato da una società. L’utile è il risultato dell’attività in un determinato periodo (l’anno fiscale). Corrisponde alla differenza tra le entrate (fatturato, ricavi finanziari…) e i costi (per le materie prime, per il personale, per gli interessi sui prestiti, per le tasse…). L’utile per azione è semplicemente l’utile diviso per il numero di azioni della società. Secondo: il rapporto tra prezzo di Borsa di un’azione e il valore contabile per azione. Il valore contabile corrisponde a quanto resta di una società ipotizzando di vendere tutte le sue attività e di ripagare tutti i suoi debiti ai valori di bilancio. Anche questo valore viene diviso per il numero delle azioni della società. Terzo: il rapporto tra enterprise value e EBITDA. L’enterprise value è il valore in Borsa delle azioni di una società sommato al valore dei suoi debiti (al netto della eventuale liquidità in cassa). L’EBITDA è invece un acronimo che indica l’utile industriale di una società, ovvero i ricavi a cui vengono sottratti i costi operativi (materie prime, personale…), ma non la quota parte degli oneri pluriennali, i costi finanziari e le tasse. Questi due elementi – che vengono considerati in valori assoluti e non “per azione” – ci permettono di valutare anche società giovani, che per loro natura non sono ancora in grado di produrre utili. Tutti e tre questi indicatori sono quelli che chiamiamo “indicatori di convenienza”: sono un po’ come il prezzo al chilo delle mele, più sono elevati, più quelle azioni sono sopravvalutate. Per capire se questi “prezzi al chilo” sono elevati li confrontiamo tre volte: prima con i valori medi delle azioni del settore cui la società appartiene, poi con i valori medi delle azioni dello stesso Paese della società e, infine, con i valori medi delle azioni mondiali. Il confronto lo facciamo basandoci sui risultati societari stimati per il futuro. Ma non solo: ci studiamo per ciascuna azione anche l’evoluzione storica dei dati di bilancio e dei relativi indicatori di convenienza negli ultimi 10 anni. Questo ci permette di smussare l’impatto di anni particolarmente buoni o negativi, di avere un quadro più preciso della capacità della società di generare profitti con continuità e, quindi, di valutare gli indicatori di convenienza in modo più preciso.
Secondo pilastro: la qualità
Magari ti starai chiedendo: ma il dividendo pagato da una società allora non conta? Conta e rientra nel secondo pilastro di analisi delle azioni, quello relativo alla qualità della società. Non ci basta sapere se un’azione è oggi cara o conveniente: sottoponiamo i bilanci a ben 9 test di qualità. Per esempio andiamo a valutare a quanto ammonta il ROE di una società – è una misura di quanto rendono i tuoi soldi investiti nell’azienda (si calcola come il rapporto tra l’utile netto e il valore contabile della società). A questo punto andiamo a confrontare il valore del ROE della singola società con un parametro di riferimento (calcolato analizzando i ROE delle altre società mondiali): se il valore ROE della società si attesta al di sopra del valore di riferimento diamo un punteggio di 1. Altrimenti diamo un punteggio di 0. Questo lo facciamo per altri otto criteri. Alcuni, come il ROE o come il rapporto tra il free cash flow (la liquidità effettivamente generata in un anno al netto degli impatti contabili) e le attività dell’azienda, attengono alla redditività della società. Tra questi indicatori ci sono anche il rapporto tra i ricavi totali e le attività delle azienda, il ROA, che ti dice se gli investimenti fatti dall’azienda stanno generando valore (si calcola come rapporto tra gli utili aziendali e il valore complessivo delle attività aziendali) e l’EBIT margin (quanta parte dei ricavi resta in forma di utile industriale dopo aver detratto i costi e la quota parte degli oneri pluriennali). Altri, come il rapporto tra l’indebitamento finanziario e i mezzi propri versati dagli azionisti nelle casse della società attengono alla solidità di quest’ultima. Tra questi c’è anche la valutazione della variazione delle azioni della società da un anno all’altro (serve a verificare ampiezza e frequenza degli aumenti di capitale). Infine, altri ancora attengono all’efficienza gestionale: se una società è ben guidata verosimilmente avrà la forza di pagare un dividendo in modo stabile – ecco che rientrano i dividendi – o di generare con costanza utili (lo verifichiamo per gli ultimi 10 anni). Alla fine è come una pagella: se la società ottiene 9 la sua qualità è eccellente, se ottiene 0 è pessima. Attenzione a due cose. Primo: i criteri di valutazione che abbiamo fin qui commentato solo quelli applicati alle società industriali, ma per altri tipi di società non hanno molto senso. Nel riquadro qui di seguito ti riportiamo i criteri di qualità per le società non industriali – per esempio per le banche c’è il cds, ovvero il costo per assicurarsi da un eventuale fallimento della banca. Secondo: se uno dei criteri di valutazione non è disponibile – per esempio il cds non è presente per tutte le banche – il giudizio di qualità viene ricalibrato sugli altri valori presenti (in pratica non c’è una penalizzazione se il dato è assente).
La qualità degli altri
Criteri di qualità per le banche: efficiency ratio (rapporto tra costi e ricavi); ROA; ROE (calcolato su valore patrimoniale al netto degli avviamenti; per la definizione di ROA e ROE vedi il paragrafo Secondo pilastro: la qualità); crediti deteriorati/totale finanziamenti erogati; Tier 1 capital ratio (uno dei principali indicatori di solidità); totale finanziamenti/totale attività; cds (il costo dell’assicurazione contro il fallimento della banca); rating (giudizio di affidabilità rilasciato dalle principali agenzie internazionali); utile/attività ponderate per la loro rischiosità (è una grandezza rilevante anche per altri indicatori di solidità); stabilità degli utili; stabilità dei dividendi.
Criteri di qualità per le assicurazioni: solvency ratio (è il principale indicatore internazionale di solidità delle assicurazioni); investment ratio (quanto si incassa sui titoli di Stato in cui l’assicurazione investe in relazione ai premi incassati sulle polizze); combined ratio (il rapporto tra i premi incassati sulle polizze e la somma degli oneri per i sinistri e i costi operativi); rating (vedi nota per le banche); cds (vedi nota per le banche); variazione del numero delle azioni; ROE; EBIT margin (vedi paragrafo Secondo pilastro: la qualità); stabilità degli utili; stabilità dei dividendi.
Criteri di qualità per le holding (società che hanno solo partecipazioni in altre società) e REIT (fondi d’investimento immobiliari): ROA; ROE (vedi paragrafo Secondo pilastro: la qualità), rapporto tra debiti e mezzi propri; variazione del numero di azioni; stabilità di utili e dividendi.
TERZO PILASTRO: il rischio
In finanza “chi risica non rosica”: i rendimenti che ti puoi aspettare dalle azioni sono più elevati di quelli che ti puoi aspettare da un investimento obbligazionario, ma questo perché con le azioni puoi anche perdere più facilmente che con i bond. Le azioni sono nel complesso un investimento rischioso. Tra le varie azioni ce ne sono, però, alcune più rischiose di altre. Per quanto possa sembrare un controsenso, diversi studi dimostrano che, nell’ambito delle azioni, quelle meno rischiose tendono a offrire maggiori rendimenti delle colleghe più rischiose. Per questo il nostro terzo pilastro di valutazione per dare un consiglio azionario è la rischiosità dell’azione. Come la calcoliamo? Il primo passo è rappresentato da quanto un titolo è storicamente ballerino: usiamo criteri statistici basati sulle variazioni mensili dei prezzi degli ultimi 7 anni. Il secondo passo è rappresentato dalla valutazione di una serie di criticità specifiche della società: per esempio verifichiamo quanto il settore in cui opera può esporla a rischi – può accadere se la concorrenza è elevata o se c’è il rischio di variazione normative che condizionino la sua attività. Inoltre valutiamo la sua diversificazione geografica, la sua dimensione, l’eventuale avvio di ristrutturazioni societarie… tutti elementi che potrebbero condizionare la crescita dei risultati. Alla fine traduciamo tutto in stelle: se l’azione ne ha 1 il rischio è il minimo, se ne ha 5, è massimo.
QUARTO PILASTRO: il momentum
Non sempre il mercato premia le società che rispettano i criteri fin qui enunciati: ci sono azioni ballerine, di società con conti non proprio in ordine e con valutazioni già elevate che tendono comunque a salire in Borsa. Abbiamo deciso di non trascurare questo aspetto includendo nel processo di valutazione anche il momentum: l’ipotesi alla sua base è che l’andamento passato dell’azione possa essere un buon indicatore del suo comportamento in futuro. Nella pratica, dunque, il momentum suggerisce di investire in azioni che in un certo arco di tempo (noi partiamo dall’andamento degli ultimi 3 mesi fino ad arrivare a 12) hanno realizzato i maggiori guadagni, scommettendo che il periodo “di buona sorte” continui.
QUINTO PILASTRO: i campanelli d’allarme
Esistono, infine, tutta una serie di circostanze specifiche che, stando alla letteratura finanziaria e alle osservazioni empiriche, tendono a condizionare negativamente l’andamento delle azioni. Per esempio, alcuni studi mostrano che le azioni delle società di nuova quotazione si comportano peggio del mercato – il fenomeno è stato osservato nei 3 anni dopo lo sbarco in Borsa. Il che non significa che una “matricola” debba per forza comportarsi male, ma il fatto che un’azione sia di recente quotazione deve far comunque alzare l’attenzione in sede di valutazione. Le altre situazioni “delicate” riguardano le acquisizioni di grande portata – un’acquisizione si può considerare “audace” se il giro d’affari della società che viene acquisita rappresenta oltre il 30% del giro d’affari di quella che effettua l’acquisizione – il lancio di importanti aumenti di capitale, l’emergere di grane legali e la presenza massiccia dello Stato nel capitale di una società – gli amministratori che rappresentano uno Stato sono spesso chiamati a prendere decisioni dettate più da considerazioni politiche e, quindi, elettorali che nell'interesse degli azionisti privati.
5 direttrici, 1 consiglio
Tiriamo le somme. Tutti i fattori di cui ti abbiamo parlato sono stati testati nella letteratura finanziaria e hanno dimostrato di permettere l’identificazione delle azioni con migliori prospettive di rendimento. Detto ciò, attenzione a due cose. Primo: nessuno dei pilasti può bastare da solo. Il momentum, per esempio, ti dice solo di seguire la massa, ma non ti dice se ci sono ragioni fondate sul rialzo delle azioni, né fornisce alcuna indicazione di quando il vento è destinato a girare. Allo stesso tempo un’azione può avere indicatori di convenienza interessanti, ma essere comunque destinata a dare poche soddisfazioni per via di una qualità aziendale non elevata o di grane giudiziarie. Non c’è un pilastro che vale più di un altro: solo analizzandoli tutti è possibile valutare pro e contro per arrivare a un consiglio. Per questo potresti trovare consigliate azioni che non sembrano particolarmente convenienti (magari correttamente valutate secondo il primo pilastro), ma che risultano eccellenti sotto gli altri 4 profili di valutazione. Secondo: abbiamo detto che i pilastri della metodologia hanno dimostrato di poter portare all’identificazione di azioni con buoni rendimenti. Ecco, questi ultimi sono comunque generalmente rilevati nel lungo periodo (almeno 5 anni). I consigli dati secondo la nostra metodologia saranno, dunque, da intendersi sempre rivolti al “cassettista”.
Una chicca in più
Non rientra nei fattori ufficiali di valutazione, ma per le società da noi monitorate abbiamo introdotto anche un sigillo di “qualità ESGF”. Valuta due aspetti. Il primo è il rispetto da parte della società dei criteri ESG: la sigla vuol dire Environmental, Social e Governance, ovvero attenzione all’ambiente (efficiente utilizzo delle risorse, clima…), alla società (diritti umani, condizioni di lavoro…) e a trasparenti rapporti aziendali (attenzione agli azionisti di minoranza…). Il secondo è il rispetto dei criteri di qualità che rappresentano il secondo pilastro del nostro modello di valutazione. Solo le società che ottengono buoni risultati su entrambi i fronti possono fregiarsi del sigillo ESGF.
Bibliografia essenziale
Ecco alcuni degli studi più interessanti che abbiamo utilizzato per costruire la nostra metodologia (andiamo in ordine pilastro per pilastro).
La prima analisi che dimostra come azioni con un rapporto prezzo/utile basso possano dare i migliori risultati in Borsa è stata realizzata da Basu del 1977 (Investment Performance of Common Stocks in relation to their price-earnings ratios: A test of the efficient market hypothesis).
Celebri anche gli studi di Fama e French del 1998 (Value versus Growth: The International evidence).
Sull’importanza del prezzo/valore contabile uno dei lavori più recenti è quello degli studiosi David e Lee del 2008 (Defining Value and Growth: Implications for Returns and Turnover).
L’importanza del rapporto enterprise value/EBITDA, invece, è stata per la prima volta dimostrata nel 1980 dall’accademico Joel Greenblatt nel suo libro “The little book that beats the market”.
Uno degli studi più importanti che mostra l’importanza qualità aziendale sui rendimenti azionari è quello pubblicato da Piotroski nel 2000 (Value Investing: The Use of Historical Financial Statement Information to Separate Winners from Losers).
Tra i primi studi sul ruolo della rischiosità delle azioni, citiamo quello di Fischer, Jensen e Scholes del 1972 (The capital asset pricing model: some empirical tests, Studies in the theory of capital markets).
Tra quelli più recenti, il lavoro del 2014 di Blitz, Falkenstein e van Vliet (Explanations of the Volatility effect: An overview Based on the CAPM Assumptions).
Le valutazioni aggiuntive a quelle sulla volatilità delle azioni sono ispirate dal modello delle “forze competitive” di Porter del 1979 (How Competitive Forces Shape Strategy).
Uno degli studi più interessanti sul momentum è quello condotto nel 2015 dagli studiosi Geczy e Samonov chiamato: 215 Years of Global Multi-Asset Momentum: (1800-2014) (Equities, Sectors, Currencies, Bonds, Commodities and Stocks).