Microplastiche, una minaccia silenziosa di cui sappiamo ancora poco
Presenti ovunque nell'ambiente, si accumulano in mari, oceani, suoli, e persino nell'aria. Aumentano gli studi che cercano di capire dove si trovano, da dove provengono e quali possono essere i possibili effetti ambientali, ma i rischi per la salute non sono ancora chiari. Ecco cosa possiamo fare per difenderci dalle microplastiche.
- articolo di
- Rudi Bressa

Nel nostro mondo moderno, la questione dell'inquinamento da plastica è diventata una preoccupazione sempre più urgente. Mentre gli oggetti di plastica di grandi dimensioni che galleggiano nei nostri oceani e inquinano le terre sono ormai in ogni angolo del pianeta, c'è un nemico altrettanto insidioso, quasi invisibile, che si cela sotto la superficie: le microplastiche. Se ne sente parlare sempre di più, aumentano gli studi che cercano di capire dove si trovano, da dove provengono e quali possono essere i possibili effetti ambientali e quelli legati alla salute. E crescono anche le proposte di legge per limitarne la dispersione nell'ambiente, per ridurne gli effetti nocivi. Ma per capire bene di cosa si tratta dobbiamo prima di tutto dare una definizione di microplastica. E già qui iniziano i problemi, perché non esiste una definizione univoca. Il termine “microplastica” infatti compare per la prima volta nel 2004, per descrivere le particelle di plastica più piccole. Ma piccole quanto? Una definizione accettata più o meno in maniera unanime è che, come riportato dal sito delle Nazioni Unite, si tratti di molecole di plastica inferiori ai 5 millimetri. Anche se in alcuni casi possono essere anche più piccole, del calibro dei nanometri, ovvero un milionesimo di millimetro. Alcuni ricercatori hanno invece tentato di dare una definizione diversa, basata non solo sulle dimensioni, ma anche sulla loro origine, considerando quindi anche le caratteristiche fisiche e chimiche dei polimeri (i mattoncini che compongono la plastiche).
Come si formano le microplastiche
In ogni caso le microplastiche vengono suddivise in due sottogruppi, in base alla loro origine, ovvero in primarie e secondarie.
Microplastiche primarie
Le prime sono plastiche di dimensioni ridotte prodotte in maniera intenzionale per l'impiego nel mondo della cosmesi (i microgranuli contenuti negli scrub o nei dentifrici), o le microfibre usate nei tessuti tecnici, o ancora i granuli di plastica utilizzati nei processi industriali (chiamati pellet). Possono anche derivare dall'abrasione di oggetti di plastica di dimensioni maggiori, come gli pneumatici o alcune vernici e fertilizzanti chimici. Interessante notare come le stime mostrino che le microplastiche primarie rinvenute principalmente negli oceani rappresentino tra il 15 e il 31 per cento del totale. Di queste più di un terzo provengono dal lavaggio degli indumenti sintetici (35 per cento), un 28 per cento dall'abrasione degli pneumatici durante la guida, mentre quelle aggiunte intenzionalmente nei prodotti per la cura personale, ad esempio le microsfere negli scrub per il viso, siano solamente il 2 per cento del totale.
Microplastiche secondarie
Le microplastiche secondarie invece sono la forma più comune e derivano principalmente dalla frammentazione di oggetti di plastica di dimensioni più grandi, causata dall'esposizione agli agenti atmosferici, come la luce solare, il vento, o l'azione delle onde. Inoltre si possono formare dalla degradazione dei polimeri che entrano nella catena alimentare degli animali selvatici, nonché dalla frammentazione dei rifiuti di plastica abbandonati nell'ambiente, come buste della spesa o bottigliette. Quest'ultime rappresentano tra il 69 e l'81 per cento delle microplastiche presenti negli oceani.
Studi e stime dei rilasci nell’ambiente
Sono diversi e molto numerosi gli studi e le stime sull'inquinamento ambientale causato dall'abbandono, o comunque della scarsa gestione dei rifiuti di plastica. Secondo un documento prodotto dalla Commissione europea nel 2019, si stima che la quantità globale di rifiuti di plastica gestita in modo inadeguato nel 2015 sia stata compresa tra 60 e 99 milioni di tonnellate, mentre l'ammontare totale annuale di microplastiche che si formano o che finiscono negli ambienti naturali, come suolo e acque, potrebbe essere dell'ordine di 11 milioni di tonnellate. Il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (Unep) nel 2017 stimava addirittura che le microplastiche presenti nei mari e oceani fossero di oltre 50 migliaia di miliardi: per capire l'ordine di grandezza sarebbero 500 volte più numerose delle stelle della nostra galassia. Sappiamo poi che le microplastiche sono state rinvenute un po' ovunque, non solo negli oceani: entrano nella catena alimentare degli animali selvatici, si trovano nelle nevi dei più remoti ghiacciai alpini, ai poli, nell'aria che respiriamo, arrivando fino ai polmoni degli esseri umani. Insomma si tratta ormai di un problema ubiquitario e che sta ponendo serie discussioni non solo nel mondo accademico, ma anche in quello politico, per limitare i danni sull'ambiente e sulla salute e ridurne quindi i rischi.
I dubbi sulla provenienza delle microplastiche
C'è da dire che più ci addentra in questo campo, più si trovano anche risultati discordanti sia sulle quantità che sulla provenienza delle microplastiche. Ad esempio uno studio condotto dai nostri ricercatori italiani e pubblicato su Science ha analizzato 23.593 microfibre tessili raccolte da 916 campioni d'acqua di mare in sei bacini oceanici differenti, scoprendo che il 79,5 per cento di queste era a base di cellulosa (principalmente cotone), il 12,3 per cento era a base animale (principalmente lana) e solo l’8,2 per cento era sintetico (principalmente poliestere). Mentre se si vanno a spulciare bene i dati che si riferiscono alla quantità di microplastica ingerita da ognuno di noi, che moltissimi media hanno riportato essere di circa 5 grammi a settimana (la famosa carta di credito), si nota invece come i ricercatori stimino una quantità che varia dai 0,1 ai 5 g, il che non significa certamente che ognuno di noi mangi una quantità tale di plastica ogni settimana.
I possibili effetti sulla salute
Anche in questo l'attenzione del mondo delle ricerca è letteralmente esplosa. Ma è giusto ricordare che siamo ancora agli inizi e che di conseguenza esiste ancora molta incertezza sui reali effetti conosciuti sulla salute umana e degli animali. Certo sappiamo che possono essere un problema per gli organismi marini, in quanto l'ingestione di queste particelle può causare danni fisici, ostruzioni del sistema digestivo e il potenziale trasferimento di sostanze tossiche lungo la catena alimentare. La stessa Unep sottolinea come sia difficile dimostrare gli effetti dell'ingestione di microplastiche: è stato ad esempio osservato che queste particelle possono chiudere la parete intestinale di cozze e ostriche, e indurre una reazione nei tessuti. Su una scala diversa, le balenottere del Nord Atlantico che si nutrono piccoli invertebrati filtrando enormi volumi di acqua di mare, potrebbero vedere ridotto o comunque influenzato in maniera negativa il sistema di filtraggio che permette alla balena di nutrirsi.
Il problema dell'ingestione da parte degli animali
Come già detto, sappiamo che queste microparticelle possono contaminare i corpi d'acqua, comportando rischi sia per gli ecosistemi acquatici (come dimostrato da una nostra inchiesta del 2019) che per le forniture di acqua potabile (come era emerso nel 2021 nell'inchiesta sull'acqua pubblica in 35 città). Che possono accumularsi nel terreno, influenzando la qualità del suolo e danneggiando potenzialmente la crescita delle piante. Ciò che più preoccupa però è la possibilità da parte di quest'ultime di accumularsi nei tessuti degli organismi, noi compresi, portando a concentrazioni sempre più elevate man mano che si spostano lungo la catena alimentare. Conosciamo infatti che molti tipi di plastica possono assorbire una vasta gamma di contaminanti, come possono essere i pesticidi o i policlorobifenili (Pcb), sostanze che possono avere effetti cronici sulla salute umana, interferendo sul sistema endocrino (quindi nella produzione e regolazione degli ormoni), o portare a cambiamenti genetici o al cancro.
Una volta ingerite da pesci, uccelli o mammiferi marini, le sostanze chimiche, che penetrano nella struttura della plastica, possono essere dunque rilasciate negli organismi ospiti. Certo molto dipende dalla quantità e per quanto tempo si è esposti a questo tipo di contaminazione, ed è per questo che è estremamente difficile capire quale possa essere il rischio nei nostri confronti.
Le microplastiche sono pericolose per l'uomo?
La questione dunque è piuttosto complessa e sono ancora in corso numerosi studi a riguardo. Se ad esempio prendiamo il documento dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) “Microplastics in drinking water” (Microplastiche nell'acqua potabile), si legge come i potenziali pericoli dipendono dalle stesse particelle, dalla loro composizione chimica e dagli agenti patogeni che possono trasportare. Lo stesso documento però sottolinea come esistano ancora “limitate evidenze disponibili”, e che di conseguenza “le sostanze chimiche e biofilm associati alle microplastiche nell'acqua potabile pongono un basso livello di preoccupazione per la salute umana”. Lo stesso è confermato dall'Istituto superiore di sanità (Iss), dove si spiega come esistano al momento “incertezze significative sulla qualità e sull’ampiezza dei dati relativi all'esposizione umana alle microplastiche nell’acqua potabile e che le conoscenze attuali sugli effetti tossicologici richiedono l’acquisizione di prove scientifiche più solide”. Insomma ne sappiamo ancora poco e gli studi condotti finora hanno ampi margini di incertezza. Anzi la stessa Oms afferma che la maggior parte di questi “non sono del tutto affidabili perché i loro metodi non sono stati sottoposti a un sufficiente controllo di qualità”. Ciò che preoccupa gli esperti è più l'esposizione ad acque potabili non sufficientemente trattate, che alla presenza di microplastiche al loro interno.
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Cosa possiamo fare per ridurre il problema
Che il problema della dispersione in ambiente sia reale e che questo possa comportare dei rischi è comunque innegabile. Per questo motivo la Commissione europea, all'interno della Strategia europea sulla plastica, del Piano d'azione per l'economia circolare e del Piano d'azione per l'inquinamento zero, ha ad esempio adottato delle misure per limitare le microplastiche aggiunte intenzionalmente: alcuni esempi di prodotti comuni sono i materiali di riempimento impiegato sui campi sportivi sintetici. Nei cosmetici in cui la microplastica viene utilizzata per molteplici scopi, come l'esfoliazione o l'ottenimento di una consistenza, fragranza o colore specifici; e infine in molti altri prodotti come detersivi, ammorbidenti, glitter, fertilizzanti, prodotti fitosanitari, giocattoli, medicinali e dispositivi medici. Le nuove norme dovrebbero impedire il rilascio nell’ambiente di circa mezzo milione di tonnellate di microplastiche l'anno. Inoltre a fine ottobre di quest'anno, ha proposto altre misure idonee alla riduzione dell'inquinamento causato dal rilascio involontario di queste particelle (i pellet), che rappresentano fino all'80 per cento delle microplastiche rilasciate in ambiente. L'obiettivo è quello di ridurre del 30 per cento i rilasci di microplastiche nell’ambiente entro il 2030.