Moda sostenibile: la nostra inchiesta su 12 marchi
Usano tessuti riciclati o rigenerati, creano con i fornitori filiere virtuose, adottano modelli commerciali più ecofriendly. Una moda bella, buona e di qualità è già tra noi. Altroconsumo ti aiuta a riconoscerla e premiarla. Le nostre valutazioni su 12 marchi per quanto riguarda materie prime utilizzate, filiere, packaging. E anche aspetti più generali legati all’ecommerce.
- di
- Matteo Metta

Per una delle industrie più inquinanti al mondo, com’è quella della moda, la transizione ecologica è un imperativo urgente. Oggi non c’è marchio che non sbandieri di aver abbracciato modelli di economia circolare o intrapreso una rivoluzione verde. Per noi consumatori resta però difficile capire qual è l’impronta ambientale dei capi d’abbigliamento che vogliamo acquistare, e se l’impegno delle aziende è reale oppure stanno facendo greenwashing. A differenza delle etichette alimentari, più ricche di informazioni, quelle degli abiti non sono di grande aiuto. Da qui la nostra idea di realizzare un’apposita inchiesta e offrirti i risultati. Abbiamo perciò invitato dodici piccole e medie imprese italiane impegnate nella moda verde a misurarsi con una piattaforma digitale che ha permesso loro di autovalutare quanto sia sostenibile e responsabile il proprio modello di business. La piattaforma è stata messa a punto da Ecomate, startup innovativa italiana, nostra partner in questo progetto, e si basa sui cosiddetti criteri ESG (Environmental, Social and Governance), tenendo conto di ben 150 parametri raggruppati in undici moduli e dell’allineamento dell’impresa a più di 300 standard e certificazioni nazionali e internazionali. A questa autovalutazione, applicabile a qualsiasi settore economico, abbiamo aggiunto un questionario specifico per il comparto abbigliamento, grazie al quale è possibile raccogliere informazioni sugli aspetti più rilevanti per la sostenibilità dal punto di vista di chi acquista moda.
Filiere corte e controllate
Inoltre, poiché i prodotti di tutte e dodici le aziende sono acquistabili online (solo in alcuni casi anche in negozi fisici), per ciascuna di esse abbiamo aggiunto una nostra verifica effettuando acquisti negli e-shop, così da poter valutare il funzionamento del sito, la trasparenza, le politiche di vendita (compresi garanzia, resi, reclami e servizi di riparazione), la consegna, il packaging usato. Data la stagione, abbiamo selezionato brand che vendono costumi da bagno e abbigliamento casual e sportivo realizzati con fibre riciclate o rigenerate. Su dodici imprese invitate a partecipare, le sei che hanno risposto al nostro appello si dimostrano impegnate o comunque sulla buona strada. Bene che impieghino fibre maggiormente sostenibili prodotte in Italia, eccezion fatta per il cotone, che il nostro paese non produce. Quelle che lo usano lo scelgono comunque di origine europea. Anche tutte le operazioni necessarie alla realizzazione dei capi avvengono sempre in Italia, e a livello locale, sebbene tra i sei marchi che hanno partecipato all’inchiesta solo uno risulti attivo direttamente nei processi produttivi. Si tratta di Progetto Quid, impresa sociale che offre opportunità di lavoro sicuro a persone vulnerabili (soprattutto donne). In ogni caso tutte le aziende hanno scelto filiere corte, che in genere garantiscono un minore impatto ambientale e sono più agevoli da monitorare.
Il tema che più abbiamo approfondito, sia attraverso il questionario sia passando in rassegna i capi in vendita negli e-shop, è quello del ricorso alle “materie prime seconde” (usate per l’80% degli indumenti venduti da quattro brand su sei). Per quanto riguarda le sostanze chimiche, sono due le aziende che dichiarano di richiedere ai loro fornitori requisiti più restrittivi rispetto a quelli previsti dalla normativa europea. Bene, inoltre, l’applicazione di standard sociali e ambientali per la scelta dei fornitori di componenti.
Meno packaging, più riparazioni
Per quanto riguarda i siti di e-commerce dei dodici marchi dell’inchiesta, nulla da dire sulla sicurezza, qualche problema si riscontra invece sulla lingua usata (Licia Florio, Lido e The Minu usano esclusivamente l’inglese) e sulle procedure per reclamare: sono poco chiare e difficilmente accessibili quelle di 9 siti su 12. Un altro punto dolente è il packaging, a volte eccessivo e composto da materiali diversi. I più virtuosi sono Kibou e Licia Florio, che spediscono il capo in una busta di carta. Anche Adalù, Atma, Progetto Quid, Repainted, Seay optano per una soluzione a basso impatto ambientale, la busta in plastica riciclata del corriere.
Abbiamo valutato positivamente chi non adotta tecniche di vendita particolarmente aggressive per indurre i clienti ad acquisti compulsivi, a tutto danno dell’ambiente.
Quando si parla di economia circolare si citano numerose “R” (riciclare, recuperare, riusare...), ma spesso se ne dimentica una importantissima, che contribuisce ad allungare la vita dei prodotti: riparare. Apprezzabili quindi Kampos, Rifò e Seay, che offrono un servizio di riparazione gratuito. E, nel caso in cui si volesse dismettere l’indumento, anche il ritiro dell’usato, offrendo in cambio un buono sconto o il rimborso di una percentuale di quanto speso per comprarne uno nuovo. Un incentivo a chiudere il cerchio.
Leggi anche il nostro speciale sulle app per il cambio di stagione per riporre correttamente i tuoi capi e farli durare più a lungo.
I dodici marchi dell’inchiesta
Sommando i giudizi ottenuti nei numerosi parametri considerati, ecco come si classificano i brand della moda verde da noi selezionati.
I brand impegnati
Kampos e Rifò sono i marchi che ottengono le valutazioni più alte. L’uso delle “materie prime seconde” nelle collezioni in vendita nei loro siti riguarda rispettivamente l’85% e il 92% dei capi. In confronto alle quattro aziende del gruppo che segue, garantiscono in più la tracciabilità dei loro prodotti lungo tutta la filiera e la buona comunicazione dei relativi benefici ambientali. Kampos adotta il sistema di gestione ambientale EMAS (Sistema comunitario europeo di ecogestione e audit). Rifò ha comunque una politica ambientale in linea con i più recenti obiettivi dell’Ue. Inoltre, il loro impegno in materia di salute e sicurezza, oltre che nella prevenzione degli atti discriminatori, va oltre le normative.
Sulla strada giusta
Più del 40% dei fornitori di cui si avvalgono le aziende che hanno partecipato all’inchiesta è locale e diretto. Mentre è oltre il 75% dei prodotti e dei servizi da loro acquistati a essere dotato di marchi e/o certificazioni ecologici, tranne che per Progetto Quid. Molto positivo è anche che queste imprese investano oltre il 2% del fatturato annuale in ricerca, sviluppo e innovazione, aspetti molto rilevanti per la sostenibilità, pensiamo per esempio agli studi sul ciclo di vita dei prodotti con l’obiettivo di ridurne l’impatto ambientale. Tra i prodotti in vendita sul loro sito quelli realizzati con “materie prime seconde” sono per Seay l’80%, Progetto Quid il 70%, Atma il 30%, CasaGin il 10%.
Non hanno collaborato
In questo segmento troviamo le sei aziende che non hanno partecipato all’inchiesta, fatto che ci consente di fornirti informazioni solo su quanto pubblicamente disponibile e sulle nostre prove nei loro e-shop (senza rilevare criticità). Sono brand che usano materiali riciclati o rigenerati. In gran parte dei casi i loro capi di abbigliamento sono made in Italy e prodotti artigianalmente.
Il denim è tra i capi d’abbigliamento a maggiore impatto ambientale. Ne vuoi uno davvero sostenibile? Sceglilo tra i brand promossi dalla nostra inchiesta che include piccole e medie imprese italiane impegnate nella moda sostenibile.