Denim sostenibile, ecco chi vince la gara dei green jeans
Il denim è tra i capi d’abbigliamento a maggiore impatto ambientale. Ne vuoi uno davvero sostenibile? Sceglilo tra i brand promossi dall'inchiesta di Altroconsumo.
- di
- Matteo Metta

«Chi mi ama mi segua» recitava negli anni Settanta lo slogan di un’indimenticata e celebrata pubblicità di jeans. Il richiamo di sapore evangelico, che campeggiava sul conturbante lato B di Donna Jordan strizzato in un denim, era fatto apposta per far gridare allo scandalo i benpensanti. Un mix di sacro e profano in puro stile Oliviero Toscani, che infatti era l’autore dello scatto. Una provocazione che però coglieva qualcosa di profondamente vero: i jeans erano e sono la religione laica più praticata al mondo. Un culto che attraversa classi sociali, epoche, generazioni, etnie, culture, gusti e stili. Talmente versatile da mettere d’accordo fashionisti e chi se ne infischia dei nuovi trend. Un capo gender fluid prima che la moda teorizzasse l’abbattimento degli steccati tra maschile e femminile. Conciliante, sì, ma non fino al punto di risolvere la disputa tra le due città che se ne contendono la primogenitura: Genova (il termine blue jeans deriverebbe da «blue de Gênes») o Nîmes (da cui la parola denim, cioè «de Nîmes»)? Ai posteri l’imperituro dilemma.
La trama della tela
È tra gli indumenti più diffusi, eppure i trend di vendita sono ancora in ascesa. Una bomba ecologica, e non solo perché di jeans se ne producono e se ne comprano troppi. Il denim è un problema in sé, dal momento che figura nella lista dei capi d’abbigliamento a maggiore impatto ambientale. Per tanti motivi: i 7.000 litri d’acqua che in media occorrono per produrne un paio; il consumo di suolo e l’uso di pesticidi e fertilizzanti necessari alle coltivazioni di cotone (il denim è tela di cotone); la soda caustica, la formaldeide, l’acido cianidrico e tutte le sostanze tossiche usate nella produzione di coloranti sintetici che servono a tingerlo; il permanganato di potassio, che dà ai jeans nuovi un aspetto già vissuto, ma che può causare danni ai polmoni dei lavoratori. E naturalmente per gli impatti sociali, dato che la produzione avviene principalmente in Paesi (Cina, Messico, Turchia e Bangladesh) in cui i salari sono da fame e i diritti dei lavoratori non garantiti.
Ridisegnare il denim
Non stupisce quindi che per i jeans la cura detox sia iniziata prima che per altri capi, tant’è che negli anni si sono moltiplicate le iniziative - alcune ecologicamente sincere, altre solo di facciata - di grandi e piccoli brand dell’abbigliamento. Finché nel 2019 a mettere ordine in questo marasma green non è arrivata la Fondazione Ellen MacArthur, pioniera dell’economia circolare, che, avvalendosi delle competenze di 80 esperti di denim, ha dato vita al progetto Jeans Redesign, che ha messo a punto precise linee guida per realizzare jeans circolari, cioè duraturi, progettati per avere più vite, realizzati con materiali sicuri e facilmente riciclabili, e limitando il più possibile l’uso di acqua, energia e risorse naturali. Princìpi che sono stati abbracciati anche da diverse griffe italiane.
La nostra inchiesta
Nell’inchiesta non abbiamo incluso i grandi brand famosi per i jeans, ma piccole e medie imprese impegnate nella moda sostenibile, italiane e con una filiera corta. Ne abbiamo invitate otto a raccontarci - attraverso un questionario - dove, come e con quali materiali producono i loro jeans, qual è la loro politica di vendita e se offrono servizi di riparazione e di ritiro dell’usato.
Inoltre, le abbiamo sfidate a misurare quanto è sostenibile e responsabile il loro intero modello di business. Questo, grazie all’utilizzo di un software - messo a punto da Ecomate (nostro partner in questa inchiesta) - in grado di fotografare con estrema precisione lo stato dell’arte di un’impresa in materia di sostenibilità. La piattaforma si basa sui cosiddetti criteri ESG (Environmental, Social and Governance) e tiene conto di ben 150 parametri, dalla gestione dei rifiuti all’energia, dalla responsabilità sociale alla salute e sicurezza, dalla trasparenza all’etica professionale. Per ogni marchio abbiamo poi acquistato online il modello più economico di jeans, spendendo da 70 a 199 euro (i prezzi sono in linea con quelli dei maggiori brand che offrono jeans sostenibili, come Kuyichi e Tommy Hilfiger): abbiamo così potuto esaminare il processo di acquisto, visionare i prodotti e valutare il packaging utilizzato.
Puntano sul Made in Italy
Su otto marchi, tre - Rifò, Nelle Grandi Fauci, Blu of a Kind - hanno pienamente accolto il nostro invito, portando a compimento sia la valutazione ESG sia il questionario di settore, che abbiamo elaborato appositamente per questa indagine. Una, Candiani Denim, ha partecipato compilando semplicemente il questionario. Mentre il 50% delle aziende (Haikure, Par.co Denim, Reduce e Vescovo) non ha collaborato.
Per quanto riguarda i parametri ESG, i tre brand che hanno usato il software ottengono valutazioni globali positive, Rifò persino ottime, dimostrando di avere un modello di business capace di generare impatti sociali e ambientali positivi. L’italianità è un valore su cui puntano molto. Su tutti i jeans troviamo il marchio Made in Italy, un’indicazione che però non garantisce che il prodotto sia stato ideato e realizzato interamente in Italia: bastano solo due fasi di lavorazione svolte sul territorio nazionale. Affinché sia completamente italiano, deve essere 100% Made in Italy, marchio presente solo sui jeans Rifò. Comunque i produttori dichiarano che la manifattura avviene quasi sempre in Italia, e in diversi casi che i jeans vengono tagliati, cuciti e assemblati da piccoli artigiani o da aziende locali.
Dal tessuto al colore
I jeans sono sempre di cotone al 100%? Sì, per tutti i brand dell’inchiesta, tranne che per Nelle Grandi Fauci (95% della collezione) e per Candiani Denim, che impiega l’innovativo tessuto denim elasticizzato biodegradabile, ottenuto con una propria tecnologia brevettata (Coreva).
Tutti e quattro i brand che hanno collaborato all’inchiesta usano cotone biologico, per la cui certificazione si affidano a standard diversi. Ricordiamo che, sebbene sia positivo avere referenze di enti terzi, il sistema delle certificazioni prevede che il controllato paghi il controllore, fatto che lascia qualche dubbio sull’affidabilità dei messaggi comunicati. Diffuso, ma non come ci si aspetterebbe, l’impiego di cotone riciclato. Rifò stima di poter evitare 12 tonnellate di rifiuti grazie all’impiego di materie prime seconde, quali sono appunto le fibre riciclate e rigenerate.
Quasi tutti i brand evitano coloranti sintetici e optano per l’indaco naturale (che si estrae dalle foglie dell’omonima pianta), che però è più delicato e si stinge con più facilità. Candiani Denim usa l’Indigo Juice (un altro suo brevetto), una tecnica di tintura creata per penetrare solo superficialmente nelle fibre, risparmiando acqua ed energia.
Il packaging sta sulle scatole
Una volta consegnatici i jeans acquistati online, abbiamo verificato se anche nel packaging sono state fatte scelte sostenibili; vale a dire: imballaggio monomateriale, meglio se riciclato, e ridotto all’osso, tanto più che con i jeans il problema della fragilità non si pone. La maggior parte dei jeans erano in scatole (spesso di cartone riciclato), che però hanno peso e volume maggiori di una semplice busta. Insomma, si può fare di meglio. Rifò ha usato il Fluffypack, un sacchetto realizzato in feltro (100% riciclato), riutilizzabile per esempio come contenitore da portare in valigia. Bene anche Par.co Denim, che usa la busta in plastica del corriere abbinata a una busta in tessuto.
Consegna l’usato, ricevi un buono
Davvero lodevoli i servizi di riparazione gratuita offerti dai brand sui prodotti con il loro marchio. Allungare la vita dei capi d’abbigliamento significa ridurne in media del 20% l’impatto ambientale. Apprezzabile anche il ritiro dell’usato, un servizio offerto sia da Rifò sia da Nelle Grandi Fauci, in cambio di un buono per i successivi acquisti.
La manutenzione del jeans
Una buona manutenzione del denim ne preserva la qualità per molti anni. I jeans nuovi vanno lavati prima di essere indossati. Dopo, però, il numero dei lavaggi deve ridursi il più possibile: l’ambiente e la bolletta ringrazieranno.
Lavaggio
Evita il lavaggio a mano in vasca da bagno (si spreca molta acqua). Per il lavaggio in lavatrice non superare ai 30 °C. Il programma da scegliere è quello per il cotone. I jeans in genere si sporcano dopo che li hai messi cinque-sei volte. Tra un utilizzo e l’altro, puoi farli arieggiare per un paio d’ore: riacquisteranno comunque freschezza. Lavarli spesso è un fatto culturale, non un’esigenza igienica.
Asciugatura
L’uso dell’asciugatrice è sconsigliato per i jeans, poiché lo strofinamento dei capi nel tamburo della macchina è causa di maggiore usura. Meglio stendere i jeans e farli asciugare all’aria, appesi per le due estremità del girovita (cintura): eviterai la formazione di pieghe da asciugatura. Se li ritiri appena umidi, puoi anche evitare di stirarli.
Stiratura
Se una volta asciutti i jeans presentano pieghe che è necessario stirare, in genere è sufficiente una passata a ferro tiepido. Altrimenti meglio comunque attenersi alle temperature di stiratura indicate sull’etichetta del capo.
Tintoria
Il lavaggio ad acqua è più efficace di quello a secco. Se i jeans non hanno applicazioni né decori, non c’è ragione di ricorrere al servizio di tintoria. Anche perché se il jeans lo permette, anche il tintore lo laverà ad acqua.
Il denim è un tessuto ideale per tutte le stagioni ma se vuoi sapere come gestire al meglio il guardaroba leggi il nostro speciale sulle app per il cambio di stagione.