Dazi Usa sui farmaci: aumenteranno i prezzi in Italia?
L’accordo sui dazi tra Stati Uniti e Unione Europea introduce una tariffa del 15% sui medicinali importati dall’Europa. Nessun aumento diretto dei prezzi dei farmaci per i cittadini italiani, ma cresce il rischio di strumentalizzazioni a vantaggio dell’industria. C'è da preoccuparsi? Facciamo chiarezza.

Il nuovo accordo sui dazi commerciali tra Usa e Ue ha segnato una svolta storica: anche la farmaceutica sarà soggetta a dazio e sui medicinali europei importati negli Stati Uniti sarà applicata una tariffa del 15% (mentre per generici e loro materie prime la tariffa, ancora da definire, sarà più bassa). Un cambio di scenario che ha sollevato domande e apprensioni, soprattutto per l’Italia, importante esportatore di farmaci e hub comunitario nel settore.
Ma che conseguenze concrete avrà tutto questo? Nell’immediato, i consumatori italiani non devono temere rincari diretti dei prezzi dei medicinali: la misura impatta innanzitutto sulle aziende del settore e sulle dinamiche di import/export. Restano però diversi nodi, come la possibilità che l’industria cerchi di sfruttare la situazione per ottenere vantaggi normativi o fiscali, e l’incertezza sui riflessi a medio-lungo termine, tra competitività ridotta e tentazioni speculative. Vediamo perché – più che cedere a facili allarmismi – è fondamentale mantenere alta la vigilanza sul comportamento di aziende e istituzioni, per tutelare davvero l’interesse pubblico.
Torna all'inizioCi sarà un contraccolpo per il prezzo dei farmaci?
Nonostante l’Italia sia uno dei principali esportatori di farmaci verso gli Stati Uniti (con circa 10 miliardi di euro nel 2024), l’introduzione di un dazio del 15% non comporterà nel breve termine un aumento diretto dei prezzi in Italia. Questo per un motivo molto semplice: i prezzi dei farmaci in Italia non sono lasciati al libero mercato, ma sono negoziati dallo Stato (farmaci di fascia A e H) o normati da leggi ad hoc (farmaci fascia C con ricetta) che ne impediscono l’aumento indiscriminato. Vediamo caso per caso.
Farmaci mutuabili che ritiriamo in farmacia (fascia A)
Si tratta dei farmaci essenziali per malattie acute e croniche (dagli antibiotici, ai farmaci per la pressione, il diabete, ecc.), che il Servizio sanitario nazionale fornisce ai cittadini attraverso le farmacie sul territorio, dietro ricetta Ssn e pagamento di un ticket (quando e dove previsto, a seconda dei diversi regolamenti regionali). Il loro prezzo è stabilito tramite negoziazioni tra aziende e Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. L’accordo sul prezzo si basa su valutazioni di costo-efficacia, impatto sulla spesa pubblica e alternative terapeutiche. Il prezzo, una volta definito, rimane di solito stabile per anni, salvo revisione motivata da valide ragioni. In nessun caso può subire aumenti improvvisi o sregolati. È quindi improbabile che il dazio americano comporti nel breve termine un aumento della spesa per farmaci da parte dello Stato italiano. Potrebbe però succedere in futuro, nel caso in cui l’imposizione di dazi molto forti a Paesi (come Cina e India) che producono le materie prime utili alla produzione dei farmaci a livello globale (dalle sostanze chimiche – principi attivi ed eccipienti – ai materiali per il confezionamento) o a Paesi che esportano molti farmaci (come l’Italia) si ripercuota alla fine a livello globale, andando ad aumentare il costo dei farmaci anche al di fuori degli Usa (per via dei dazi su materie prime e prodotti finiti).
Il prezzo delle materie prime incide però in modo variabile sul prezzo di un farmaco: molto di più sui generici (che hanno costi molto bassi e margini di profitto ridotti) ma molto meno su quelli innovativi, il cui prezzo (spesso molto elevato) è svincolato dai fattori produttivi. Difficile fare previsioni, ma non è impossibile che l’esborso che le aziende italiane ed europee sosterranno per via dei dazi doganali americani finisca per scaricarsi prima o poi anche sul prezzo dei farmaci in Italia ed Europa. Ma questi eventuali aumenti potranno accadere col tempo e solo dopo nuova negoziazione con l’Agenzia del farmaco, e si ripercuoterebbero prima di tutto sulla spesa pubblica e non direttamente sulle tasche di chi ritira il farmaco in farmacia (che continuerebbe a pagare – quando previsto – un ticket di contribuzione).
Farmaci ospedalieri (fascia H)
I farmaci di fascia H sono destinati all’uso esclusivo ospedaliero o alla distribuzione tramite strutture sanitarie e il loro prezzo è stabilito centralmente tramite negoziazione tra l’Aifa e le aziende produttrici, similmente a quanto avviene per i farmaci di fascia A. Questi medicinali sono poi acquistati direttamente dalle centrali di acquisto e dalle strutture sanitarie attraverso gare, dove vige una forte pressione al ribasso dei prezzi.
Anche in questo caso, nonostante possa in futuro accadere quanto prospettato per i farmaci di fascia A, non è ipotizzabile un’influenza diretta e immediata dei dazi doganali americani sul prezzo dei farmaci ospedalieri italiani. Eventuali oscillazioni del mercato internazionale potrebbero però avere un impatto nel medio-lungo periodo.
Farmaci a carico del cittadino (fascia C con o senza ricetta)
Si tratta dei farmaci il cui costo è interamente a carico del paziente, in quanto non rimborsati dal Servizio sanitario. Vi rientrano i farmaci di libera vendita, cioè senza obbligo di ricetta (come gli antifebbrili, i farmaci per i sintomi da raffreddamento e per altri disturbi comuni), ma anche quelli soggetti a ricetta il cui costo non è però coperto dal Ssn (dai contraccettivi orali come la “pillola”, agli ansiolitici, ai farmaci per l’insonnia ecc.). Questa “fascia” è l’unica in cui si può ipotizzare un effetto più diretto, perché il prezzo della “fascia C con ricetta” è determinato dalle aziende e per quanto riguarda i farmaci di libera vendita il prezzo finale è deciso nel punto vendita: cioè, in farmacia.
In linea teorica, avendo maggiore spazio di manovra, le aziende potrebbero scaricare subito sul prezzo di questi farmaci l’eventuale impatto negativo dei dazi americani. In realtà, però, questo spazio di manovra ha dei limiti: da un lato, la competizione del mercato che spinge i prezzi verso il basso (per ogni disturbo ci sono tanti farmaci utilizzabili e molti generici); dall’altro, ci sono norme in Italia che limitano l’aumento indiscriminato dei prezzi. Per i farmaci di fascia C con ricetta, infatti, la revisione del prezzo al rialzo è concessa ogni due anni, negli anni dispari, da notificare con netto anticipo e in linea con l’inflazione (salvo casi particolari). Insomma, difficile pensare che i dazi di Trump abbiano un impatto rapido e diretto sul prezzo di questi farmaci. È pur vero però che eventuali aumenti potrebbero insinuarsi a monte, nella filiera distributiva, con l’effetto di ridurre le scontistiche alle farmacie e quindi scaricarsi sul prezzo dei farmaci da banco nel punto vendita. Questo però avrebbe dei contraccolpi dal lato della competizione, che porterebbe a preferire farmaci da banco dal prezzo più basso. Oppure, l’“effetto dazi” potrebbe dirottare determinati farmaci su mercati più redditizi (come quello tedesco, dove i farmaci hanno prezzo più alti) causando carenze in Italia, ma queste dinamiche sono regolate da leggi e sorvegliate dalle autorità.
Torna all'inizioCi saranno carenze di farmaci in Italia e in Europa?
È improbabile che la situazione dei dazi aggravi di molto una situazione già grave. Le carenze di farmaci in Europa – e in Italia – ha cause strutturali preesistenti ai dazi introdotti dagli Usa. La principale causa delle carenze sta nella fragilità della catena di approvvigionamento globale: l’Europa e gli Stati Uniti dipendono in larga parte da paesi terzi, in particolare India e Cina, per i principi attivi e le sostanze eccipienti utili alla produzione dei farmaci. Si tratta di paesi che possono produrre queste sostanze a prezzi molto bassi.
La concentrazione della produzione mondiale di alcune molecole in un numero molto limitato di stabilimenti industriali nel mondo, unita all'affidamento della distribuzione di determinati medicinali – anche salvavita – a poche aziende, ha reso l'approvvigionamento globale dei farmaci facilmente vulnerabile a possibili interruzioni. Queste possono derivare da problemi produttivi in un singolo sito o da scelte legate agli interessi commerciali di pochi operatori, spesso poco motivati a mantenere la produzione di alcuni farmaci, specialmente se fuori brevetto, poco usati e con margini di guadagno ridotti. Risulta quindi difficile pensare che l’imposizione dei dazi americani aumenti così significativamente la fragilità di un sistema che è ormai grave e cronica e che mette già a rischio l’accesso ai farmaci dei cittadini europei. Invece, nel breve periodo potrebbe peggiorare l’accesso ai farmaci dei cittadini americani: un dazio del 15% sui farmaci importati dall’Europa potrebbe rendere meno conveniente esportare verso gli Usa, con possibili conseguenze proprio sulla disponibilità di farmaci negli Stati Uniti. Oltre al fatto che i dazi si scaricherebbero sul prezzo pagato dai cittadini americani stessi (per le assicurazioni o in farmacia). Sempre che nel frattempo le aziende non si inventino qualcosa (come la vendita diretta ai cittadini Usa) per ridurre l’impatto di un prezzo troppo alto sull’accesso alle cure.
Torna all'inizioSettore farmaceutico in Italia: ci saranno conseguenze?
Sul piano industriale, l’Italia potrebbe effettivamente subire alcune ripercussioni. Il nostro Paese è tra i maggiori esportatori di farmaci al mondo e gli Stati Uniti sono il primo mercato di sbocco extra-europeo. Il dazio del 15%, secondo le primissime stime di Farmindustria (che non tenevano conto di tariffe inferiori per i generici e i loro ingredienti), potrebbe comportare un onere di circa 2-2,5 miliardi di euro per le imprese italiane, un impatto che – seppure ritenuto sostenibile – può far perdere competitività all’industria farmaceutica italiana, a vantaggio di produttori localizzati direttamente negli Usa o di altri Paesi che stanno attuando politiche industriali più attrattive per le farmaceutiche, con possibili effetti sull’occupazione e sulla stabilità della filiera italiana.
Molte aziende farmaceutiche internazionali hanno infatti già annunciato massicci investimenti negli Stati Uniti. AstraZeneca, Novartis, Roche, Sanofi, Eli Lilly, Johnson & Johnson hanno avviato progetti miliardari per localizzare produzione, ricerca e sviluppo sul suolo americano, per certi versi andando proprio nella direzione prospettata dal presidente Trump. Tuttavia, le stesse aziende affermano che i veri danneggiati dai dazi ora saranno i cittadini americani. Come ha sottolineato Stefano Collatina, presidente di Egualia (l’associazione dei produttori di equivalenti e biosimilari), gli Stati Uniti “importano il 70% dei principi attivi” e “dipendono dall’Europa per almeno 700 molecole”, delle quali molte non hanno alternative produttive nel breve termine. Anche Efpia – la federazione europea dell’industria farmaceutica – avverte: l’Europa rischia di perdere attrattività, ma il danno immediato ricadrà sugli Stati Uniti, che potrebbero subire carenze e aumento dei prezzi.
Torna all'inizioPrezzo dei farmaci in USA: scenderà come dice Trump?
L’obiettivo dichiarato di Trump è “portare la produzione in patria” per ridurre i costi e proteggere la salute pubblica. Ma l’effetto dei dazi potrebbe andare esattamente nel verso opposto. Ci vorranno anni prima che la rilocalizzazione della produzione abbia effetto sul prezzo dei farmaci negli Stati Uniti. Come ha sottolineato il Ceo di AstraZeneca, “aprire uno stabilimento richiede 5-6 anni”. E mentre le aziende spostano investimenti, i farmaci continueranno ad arrivare dall’estero, ma con il 15% in più di dazi a pesare. Inoltre, il mercato farmaceutico statunitense è dominato dai farmaci generici, che rappresentano il 90% delle prescrizioni e che sono per l’80% prodotti e approvvigionati a livello internazionale. Fattore che – data la dipendenza degli Stati Uniti dalla produzione europea di generici – può aver influenzato la decisione finale di un dazio più contenuto sugli equivalenti.
I veri motivi del prezzo elevato dei farmaci in Usa non hanno nulla a che vedere con la produzione estera. A differenza dell’Europa, gli Stati Uniti non prevedono una contrattazione pubblica dei prezzi: le tariffe sono il risultato di negoziazioni private tra aziende, assicurazioni e strutture sanitarie. Il prezzo è deciso dal mercato. Non c’è contrattazione pubblica sul prezzo, non ci sono tetti alla crescita indiscriminata dei prezzi e non c’è un servizio sanitario pubblico che garantisce l’accesso dei cittadini alle cure necessarie anche se indigenti.
Torna all'inizioL’industria approfitta per chiedere regole più favorevoli
Fin alle prime ore del dibattito sui dazi, l’industria farmaceutica europea sta portando avanti un’agenda di richieste agganciandosi alla questione doganale. Secondo Efpia, se l’Europa non vuole perdere 16,5 miliardi di euro di investimenti in ricerca e sviluppo, dovrebbe diventare più competitiva rafforzando (piuttosto che riducendo) la durata della proprietà intellettuale intorno ai farmaci (brevetti e altre protezioni dalla competizione), rendere le regole più semplici per le aziende che sviluppano farmaci e incentivare gli investimenti in innovazione. Efpia chiede un contesto più favorevole per gli investimenti, paragonabile a quello americano, dove la tassazione e le normative ambientali sono considerate più “business friendly”.
Ma queste proposte – pur legittime dal punto di vista industriale – non rispondono all’interesse dei cittadini, bensì a quello delle aziende. Ad esempio: accorciare i tempi delle valutazioni sui nuovi farmaci può compromettere la verifica della sicurezza ed efficacia dei farmaci stessi. Allungare i brevetti significa ritardare l’arrivo dei generici e mantenere alti i prezzi. I dazi di Trump non devono diventare un pretesto per chiedere deregolamentazioni che nulla hanno a che fare con l’efficienza del mercato o la protezione dei cittadini europei.
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